Giace

Esile respiro,
tanto lieve
che devo tendere l’orecchio per sentirlo.

Immobile,
può dormire una notte intera
senza muoversi mai.

Nascosta,
le lenzuola fin su la testa,
a lasciar liberi solo i capelli.

Minuta,
su se stessa rannicchiata,
a cercar calore anche dopo l’inverno.

Presente,
pronta a strigermi la mano quando,
sotto il suo cuscino, cerco la sua.

Amata,
ché ogni notte è notte degna,
se lei giace accanto a me.

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Let’s *doing* it

Era un sabato della primavera di quest’anno, in uno dei periodi di lavoro più intensi della mia vita.

Ero nello studio di casa, a lavorare, e Andrea mi si è avvicinato dicendo: “Papà, se domani non devi lavorare, possiamo giocare con i lego insieme?”

Prima che io potessi rispondere qualsiasi cosa, Marco, che era lì accanto, gli fa: “Certo che deve lavorare”.

Non so come ho fatto a non piangere lì davanti a loro, ma dentro ho sentito montare una rabbia e una tristezza che mi hanno convinto definitivamente che qualcosa della mia vita andava profondamente cambiato.

Quell’episodio è stato determinante per intraprendere una strada a cui già stavo pensando da parecchio tempo, e che non avevo mai avuto il coraggio di imboccare.

Stare più tempo con i miei figli e mia moglie, avere anche più tempo per me, poter trascorrere un fine settimana senza l’ansia di “dover fare” per riuscire a fatturare.

E poi concretizzare una crescita tecnica sulla quale sto lavorando da anni, vedere progetti più grandi in team più grandi, avere l’opportunità di crescere in un ambiente e con modalità a me completamente sconosciute.

Per questi motivi, dopo più di 13 anni, ho deciso di lasciare l’azienda che ho co-fondato, e che negli anni mi ha dato tante soddisfazioni, mi ha fatto lavorare con persone fantastiche e mi ha permesso di offrire i miei servizi a clienti interessanti e stimolanti. Mi ha cresciuto sotto tanti punti di vista, ma forse ha sacrificato troppo la parte più vera di me, quella che vuole creare software.

Da domani si comincia un nuovo lavoro, in una nuova azienda, in una nuova modalità. Non più imprenditore o libero professionista, ma dipendente, e riuscire a vivere serenamente questo ruolo che non ho (quasi) mai ricoperto è forse la sfida più grande. Ma sono certo che sarà presto superata dalle sfide tecniche e organizzative che mi aspettano, e che certamente attireranno la mia attenzione più di quanto possa farlo il dover timbrare un cartellino.

Domani si comincia una nuova vita, alla ricerca di un equilibrio più sano, di una serenità che merito come chiunque altro, di una crescita che coltivo da anni.

E chissà che il futuro non riservi qualche altra sorpresa perché, in fin dei conti, “chi vuol essere lieto sia, del doman non v’è certezza”.

E ora, let’s doing it.

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Dieci nero

Doveva essere più o meno il 20 agosto, più o meno oggi di 10 anni fa.
Ero su, nella casa che sarebbe diventata dei nonni di Serena, a lavorare. Come al solito, come sempre in ogni maledetta estate.
Un cavo del telefono era stato tirato da casa dei genitori di Serena fino a dove stavo io, per consentirmi di collegarmi con un modem 56k.
Picchiavo sui tasti, lavoravo allegramente, quando la porta di casa si aprì e apparì Serena.
Non appena vidi il suo viso tirato, iniziai a tremare.
“Fra, ha chiamato tuo padre, tua mamma si è aggravata, dobbiamo tornare a Roma”.
Il sangue gelato nelle vene, gli occhi sbarrati, la paura, l’ansia. La domanda: “Dimmi la verità, ti prego”.
“No, Francesco, è questa, non c’è altro, ma dobbiamo rientrare”.
I movimenti nervosi, veloci, per raccogliere le mie cose di lavoro. La decisione di Bruno e Annamaria di rientrare con noi. L’attesa che si preparassero tutti i bagagli, nostri, di Bruno e Annamaria, di Andrea. L’interminabile attesa di partire. Il viaggio, io sul sedile di dietro, il volto appoggiato al finestrino, senza dire una parola, in attesa di ciò che sarebbe arrivato di lì a breve, in attesa di arrivare a casa, la speranza di vedere che poi non era così grave, la consapevolezza di ciò che sarebbe invece giunto.
Il viaggio, lungo, interminabile, il tentativo di dormire per non pensare, per placare la paura.
L’arrivo, fare finta di stare bene, sorridere davanti a mamma, cercare la forza.
Le giornate, lunghe, interminabili. Le confabulazioni, le notizie a bassa voce. Mamma che gioca con Andrea, che sorride. Mamma che mangia qualche cucchiaio di gelato, l’unica cosa che riesce a mandare giù. Mamma che spalanca gli occhi orgogliosa mentre le racconto che un cliente importante ha deciso di affidarci un lavoro. Mamma seduta sul divano, come tante volte quando stava bene, che mi racconta un film, l’ultimo film che ha visto, e mi racconta di quanto le è piaciuto. Io che compro quel film, qualche giorno dopo, e non ho mai trovato la forza di vederlo.
Mamma che si alza piano, che cammina strascicando un po’ i piedi, mamma che sistema i capelli posticci, perché è importante presentarsi bene, nonostante tutto. Mamma che tiene in braccio Andrea, lo fa ridere facendo schioccare lentamente le labbra. Io che scatto foto sapendo che sono le uniche che Andrea avrà con Mamma.
Mamma che va a letto presto, mamma che si alza presto, mamma che non sa dove girarsi e come sedersi per i dolori, mamma che non si lamenta mai se non quando proprio non ce la fa più. Mamma che chiede di parlare con il prete, e poi esce dalla stanza con il sorriso.
Le giornate a casa di Mamma, senza sapere cosa accadrà, né quando. Le notti insonni, i tentativi di dormire, i primi incubi. Papà che beve, per ammazzare il dolore che lo strazia, per rendere tutto questo più sopportabile. La telefonata alle cinque di mattina, dall’altra parte mio fratello, unico a dormire a casa dei miei, con voce secca e operativa mi dice: “Allora, Francesco, la situazione è questa…” e io che non ricordo nient’altro dopo quelle parole. Mio fratello che mi dice quanto è grave la situazione, andiamo subito lì. Mettiamo Andrea in macchina che ancora dorme, e andiamo. L’arrivo a casa, io non entro in camera, arriva l’ambulanza, l’infermiere chiede: “Cosa sa la signora” e mia sorella risponde: “Conosce la diagnosi, ma non la prognosi”. Come se non l’avesse capito comunque. Eppure nessuno di noi ne ha mai parlato apertamente con lei, con Mamma. Forse, se ne avessimo parlato, saremmo riusciti a viverla meno tragicamente. Il dolore sarebbe stato identico, ma la consapevolezza forse aiuta a renderlo più vivibile. Così almeno raccontano in qualche film. Bisogna portarla in ospedale, gli infermieri e mio fratello la accompagnano. Mamma, preoccupata della vestaglia e dell’assenza dei capelli posticci, che dice: “Che vergogna, mamma mia, che vergogna”. Le ultime parole di mamma che ho sentito.
In ospedale, l’attesa. Le persone che arrivano per starci vicine, Tante, tantissime, che vogliono bene a mamma e a noi.
L’attesa della fine, le frasi di circostanza, le risate nervose a denti stretti. La suora con il bollettino medico che si aggrava, che dice che non sa dire per quanto ne avrà, potrebbero essere ancora ore, mia sorella che esclama: “Oh madonna, ancora ore!” e la suora che la guarda inorridita, chissà che idiozia avrà pensato.
Io che sto vicino a Serena, io che non arrivo mai più vicino di 20 metri all’ingresso dell’ospedale, io che aspetto solo la fine.
La fine. Mia sorella che mi dice: “E’ finita”. Noi tre, noi quattro che ci abbracciamo, nell’ultimo momento in cui siamo stati uniti. Il pianto, le lacrime, il pianto che non si può fermare, che dura giorni.
Il temporale. La pioggia, tanta, tantissima, da mettere paura. Andrea, la speranza, sulle spalle di un bimbo di due mesi l’incarico di portare di nuovo felicità.
Il giorno dell’addio, io che non so come vestirmi.
La chiesa, grande. Piena. Incredibilmente piena, non so contare quante persone. Amiche e amici di mamma, amici di famiglia, amici miei.
La chiesa, le parole, il prete che piange. Il prete che piange. Mia sorella che legge e la saluta.
La bara, io e mio fratello che la solleviamo. Pesava, dio quanto pesava, e faceva male. Le lacrime, tante che non vedo la strada davanti a me. Le lacrime.
Il carro. Gli amici che mi salutano. Quelli di Roma e quelli venuti dall’estero non appena hanno saputo. Lo stupore di vederli qui, la gratitudine infinita di essermi vicini.
Il carro. Il corteo. Il camposanto. La terra, la buca.
L’addio.

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Matteo vuole fare la pace

Accosto la macchina al marciapiede e scendiamo lentamente. Dopo un giro completo nei luoghi delle mie estati da adolescente, arriviamo finalmente davanti alla spiaggia. È un tiepido pomeriggio di inizio maggio, lo stabilimento balneare in cui ho passato tante estati è ancora chiuso, lo indico comunque ai miei bambini, destinatari curiosi di questo giro turistico della memoria. Vediamo che lo stabilimento accanto, invece, è aperto: ha un bar, tavolini e divanetti: Serena e io potremo bere qualcosa e i bambini potranno mettere i piedi nella sabbia e magari sgambettare anche in mezzo all’acqua.
Mentre scendiamo le scale mi accorgo che ci sono persone che hanno persino fatto il bagno, ma noi siamo arrivati qui per caso e non siamo preparati, anche se i bambini ci provano lo stesso: “Peccato non avere il costume, avremmo potuto fare il bagno!”, dice Andrea, sperando, sotto sotto, in una soluzione tirata fuori dal nostro cilindro.
“E già, purtroppo niente bagno, ma probabilmente potete divertirvi lo stesso no?”, rispondo io.
“Ma possiamo andare nell’acqua a bagnarci le mani?”, chiede speranzoso Marco.
“Certo!”, rispondo, e mentre lo faccio mi accorgo che è arrivato davanti a me un bambino piangente. È più alto di Marco, deve avere 7 o 8 anni, ha lo sguardo basso, un po’ di mocciolo, è pieno di sabbia sul petto, sulle braccia e sul costume e piange chiedendo “Dov’è papà?”
Alzo subito lo sguardo intorno a me immaginando di trovare il papà a qualche metro di distanza, che magari si è spostato verso il bar mentre il bambino giocava, ma non vedo nessuno.
“E dov’è mamma?”, chiede ancora il bambino, con lo sguardo basso e la testa un po’ di traverso.
“Non li trovi più, tesoro?” gli chiedo abbassandomi un po’ verso di lui.
“No, non lo so dov’è papà”, risponde lui.
“Stai tranquillo, sarà qui intorno. È la mamma sai dov’è, invece?”
“È vicino al mare, mi puoi accompagnare da lei?” e mentre mi rivolge questa domanda in tono di supplica, mi prende la mano, sempre guardando verso il basso.
“Certo, tesoro, ti accompagno”, rispondo, e poi mi volto verso Serena che ha seguito la scena lì a due passi da me, in cerca di un cenno d’intesa per dirle che mi allontano per aiutare il bambino. In realtà, in quel momento, mi preoccupo più di Andrea e Marco, di cosa possono immaginare vedendomi andare via mano nella mano con un bambino appena conosciuto, ma è un pensiero che dura una frazione di secondo, perché in realtà so che non vedranno niente di strano nel fatto che il loro papà aiuta un bambino in difficoltà. E poi il bambino mi tira leggermente la mano per andare in direzione della riva, e così mi incammino per andare a cercare la mamma.
“Com’è vestita la tua mamma?”
“Ha una maglietta bianca”, risponde, sempre con lo sguardo verso il basso e piangendo.
“Allora la vedo, è lì nell’acqua”
“La mamma è arrabbiata, le chiedi se possiamo fare pace?”, mi chiede supplicante.
Resto interdetto, pensando a quanto sia strana questa richiesta. Perché non può chiedergli direttamente lui di fare pace? Quanto può essere arrabbiata una mamma con il proprio bambino di sette, otto anni, da costringerlo a chiedere a qualcun altro di intercedere per avere il suo perdono? Anche questi pensieri passano in un lampo nella mia mente, ma non mi faccio cogliere impreparato e gli rispondo: “Certo, tesoro, che glielo chiedo. Vedrai che farete pace subito”.
“Davvero glielo dici?”, mi chiede ancora singhiozzante, ruotando la testa nella mia direzione, ma sempre con lo sguardo basso. C’è qualcosa di strano nel suo muovere la testa, non capisco se lo sguardo è basso perché sta piangendo e prova vergogna per il pianto, o per quello che ha fatto, oppure c’è qualcos’altro che non va. Per un momento penso che possa essere cieco, ma si muove con troppa sicurezza rispetto al consueto lento incedere delle persone non vedenti.
Mentre ci avviciniamo alla riva, continua a singhiozzare e a pregarmi di chiedere alla mamma di fare la pace, perché è arrabbiata.
Continuo a rassicurarlo, e nel frattempo cerco di incrociare lo sguardo della madre che si trova dentro l’acqua, a uno o due metri dalla riva, e la immagino venirmi incontro non appena vedrà suo figlio che tiene per mano uno sconosciuto, immaginando che si sia perso e abbia chiesto aiuto. Gli sguardi non si incrociano, e mentre continuo a camminare verso la riva per riconsegnare il figlio alla donna, cominciano a venirmi dubbi sul fatto che quella donna con la maglietta bianca, l’unica in una spiaggia che conterà in tutto una ventina di persone, sia veramente la donna che sto cercando. Del resto, quale madre non guarderebbe ogni minuto in giro per tenere sott’occhio il figlio su una spiaggia? Quella donna invece continua a camminare avanti e indietro nell’acqua bassa, con la testa china, come in cerca di qualcosa.
Cerco di fare un cenno alla donna per chiedere “È suo questo bambino?”, ma la frase mi muore in gola perché mi suona strana, come se stessi parlando di un oggetto che qualcuno ha dimenticato in un ristorante.
Mentre penso a come riformularla, mi si avvicinano due donne che hanno capito che sto cercando di parlare con la signora con la maglietta bianca, e io domando loro: “È con voi questo bambino?”
Una delle due mi risponde: “No, non è con noi, ci siamo conosciuti qui in spiaggia, la mamma è quella signora incinta con la maglietta bianca”, e indica la donna che stavo cercando di contattare. “Il bambino ha perso gli occhiali in acqua e lei li sta cercando”, mi spiega la signora con un’aria triste e contrita. “Gli servono gli occhiali, al bambino”.
Comincio a intuire la situazione: il bambino probabilmente è ipovedente, e gli occhiali gli servono evidentemente per ridurre il problema.
Le donne guardano ora me, ora il bambino, un po’ tristi e un po’ preoccupate,
Il bambino, la sua mano stretta ancora nella mia, continua a piangere e singhiozzare, e mi chiede ancora: “Mi farai fare pace con la mamma?”
“Certo tesoro, adesso andiamo da mamma e vedrai che farete la pace”, rispondo con tono rassicurante, pensando però dentro di me a come può un bambino ipovedente aver perso gli occhiali in acqua: fosse stato il mio, quegli occhiali, così importanti per lui, glieli avrei assicurati in modo che non potessero muoversi di un millimetro neanche sotto un’onda californiana, e invece i suoi sono andati persi in un mare che è praticamente una tavola piatta. Ma non so nulla di lui, della mamma, di questi occhiali e di cosa è successo, quindi mi tengo le mie sparate presuntuose per me e sento il bambino che mi chiede: “Mi puoi portare da nonna? È lì sul ponte”, e indica un punto imprecisato della spiaggia accanto, stendendo il braccio e puntando il dito, senza però alzare lo sguardo.
Chiedo alle due donne: “Il ponte? Che ponte? Sapete dove sta la nonna?”
“No, ha detto il monte, vive sul monte”
Capisco quindi che, qualunque monte sia, non posso certo raggiungerlo con due passi, e quindi mi chino verso di lui e gli dico: “Non posso portarti da nonna, è lontana, ma adesso andiamo da mamma”
“Ma mi farai fare pace con lei?”, chiede ancora una volta.
“Certo, stai tranquillo, sono certo che farete la pace”.
Mi accorgo che sta tremando in maniera vistosa, non capisco se è per il nervosismo o per il freddo, ma poi guardo sulle braccia, vedo la pelle d’oca e gli chiedo: “Ce l’hai una maglietta da qualche parte?”
Una delle due donne risponde: “Sì, ce l’ha sul lettino”, fa un paio di passi per andare a prenderla e poi me la porge. Mi chino verso di lui, l’aiuto a indossarla e cerco di scaldargli un po’ le braccia, e gli chiedo se va meglio. Risponde di sì, sempre singhiozzando.
Mentre mi rialzo mi accorgo che finalmente la madre è giunta fino a noi.
“Niente, non li trovo, adesso devo sentire il padre, ha detto che se non li trovavo ne portava degli altri”, dice alle due donne.
Una delle donne risponde: “Noi abbiamo chiesto ai bagnini di fare attenzione se vedono qualcosa, magari anche domani, e di lasciarli al bar se li trovano”.
La donna si volta verso di me, e io la guardo. Ha un viso strano, squadrato, non bello, il volto teso, ma quello che mi stupisce di più è lo sguardo: mi guarda con occhi assenti, quasi in trance, e poi rivolge lo stesso sguardo assente al bambino, che ancora mi tiene per mano.
“Mamma adesso è qui”, dico al bambino per tranquillizzarlo.
“Le hai detto di fare pace?”, chiede ancora singhiozzando e quasi urlando. E’ il suo unico pensiero. Non si preoccupa dei suoi occhiali, non si preoccupa di non riuscire a vedere quasi nulla, si preoccupa solo di fare pace con la mamma.
Mi rivolgo alla mamma e le dico: “Signora, è preoccupato perché sa che lei è arrabbiata, e vuole fare pace.”
La donna guarda il bambino e non dice nulla.
Il bambino, sempre singhiozzante e con lo sguardo a terra, insiste, stringendomi la mano: “Lei chiedi di fare pace?”
“Sì, tesoro, glielo sto chiedendo”, e poi ripeto alla madre: “Signora, il bambino è preoccupato perché lei è arrabbiata, vuole fare pace”.
E lei, sempre uno sguardo assente negli occhi, guarda fisso verso il bambino, e dice con voce lenta, triste e rassegnata: “Lui adesso non mi può vedere”.
Capisco la difficoltà del momento, immagino la difficoltà della vita di queste persone, ma non riesco ad accettare che una madre resti impassibile davanti a un figlio che supplica perdono, per qualcosa di cui probabilmente non ha nemmeno colpa. Trattengo la rabbia e rispondo: “Ho capito, signora, non la può vedere, ma la può sentire. Gli può dare la mano?” chiedo con tono fermo e forse anche di rimprovero, tendendo verso di lei la mano del bambino che fino a un momento prima stringevo nella mia.
La donna si scuote dal suo torpore e finalmente allunga la sua mano, che vedo umida, verso quella del figlio, che continua a piangere, e gliela stringe. Si incamminano verso i lettini dove hanno le loro cose, e io li seguo a breve distanza per ricongiungermi con Serena e i bambini.
Mentre cammino guardo la mamma che chiede al bambino: “E il telefono dove l’hai messo?” e il bambino corre avanti e indietro tra i lettini dicendo “Ecco, lo sto cercando, dammi un minuto che lo trovo”.
Mi domando quanto e cosa riesce a vedere e distinguere, vedo come cerca di darsi da fare per compiacere la mamma, per trovare il telefono, e mi allontano dalla scena un po’ turbato, scosso, pensieroso.
Serena ha trovato posto su una poltroncina sotto al gazebo del bar: davanti alla poltroncina c’è un tavolinetto da caffè, e all’altro capo del tavolo un’altra poltroncina. Di fronte al lato lungo del tavolino c’è un divanetto a due posti, dove mi siedo stanco e pensieroso. Il divanetto è posizionato proprio di fronte al mare, quindi posso vedere Marco e Andrea che sono già arrivati sulla riva per giocare.
Serena non fa in tempo a chiedermi cosa è successo che il bambino torna di nuovo verso di me piangendo disperato. Mi alzo, gli vado incontro, e gli chiedo ancora: “Che c’è tesoro mio?”
“Mamma è ancora arrabbiata, adesso deve chiamare papà e cercare gli occhiali”
“Tesoro, mamma è preoccupata perché gli occhiali per te sono importanti, e adesso non sa bene come fare, ma stai tranquillo, farete pace”
Continua a piangere, vedo il mocciolo che gli cola, mi faccio passare un fazzoletto da Serena.
“Dai, soffiati il naso e poi stai un po’ qui con noi”. Lo aiuto a soffiarsi il naso, e non appena mi muovo per andare verso un secchio a buttarlo sento che lui si muove dietro di me. Lo fermo dicendogli: “Stai qui, stai tranquillo, vado a buttare questo fazzoletto e torno, e stiamo un po’ insieme”.
Lui continua a muoversi intorno alla poltrona, lo vedo che si agita e fa un passo in una direzione, poi in un’altra, sempre piangendo.
Torno verso di lui, gli metto una mano sulla schiena cerco di tranquillizzarlo con la voce e con delle carezze.
Mi è capitato altre volte di calmare bambini che piangevano, non solo i miei. Ci sono i bambini che piangono per capriccio, quelli che piangono con poca convinzione, quelli che piangono perché tristi. Ogni pianto ha una sua motivazione, una sua dignità. Dire semplicemente “Smetti di piangere” non ha altro effetto che quello di mortificare il bambino, che sta esprimendo un suo disagio, giustificato o meno che sia.
Allora bisogna semplicemente cercare di capire l’origine del pianto, e provare ad agire di conseguenza. Se il pianto è di capriccio, bisogna cercare di distogliere l’attenzione dall’oggetto del capriccio, provando a concentrare il bambino su qualcos’altro, su un oggetto, su una situazione, qualcosa che possa catturare la sua attenzione.
Se il pianto è di quelli con poca convinzione, quelli del “Vorrei e quindi ci provo piangendo un po’” oppure “Andrea mi ha dato un pizzico” allora la cosa che funziona di più è fare lo scemo, qualche faccia buffa, una risata, e in un minuto è tutto dimenticato.
Ma se il pianto è triste, l’unica è cercare di far parlare il bambino, chiedergli perché è triste, e poi parlargli guardandolo negli occhi per cercare di tranquillizzarlo.
Già, negli occhi.
Non ho mai avuto a che fare con bambini ciechi o ipovedenti, quindi non è facile capire come riuscire a calmarlo. Se non può vedermi bene, allora deve sentirmi. E quindi, seduto sul bordo del divanetto, cerco di assumere una posa non preoccupata per riuscire a trasmettere serenità anche alla mia voce, avvicino il bambino a me e, accarezzandolo sulla schiena, gli chiedo: “Come ti chiami?”
“Matteo”
“Bene, Matteo, vuoi sederti un po’ qui con noi e mi racconti qualcosa di te?”
Lui continua ad agitarsi e a piangere, non sa bene cosa fare, e anche io comincio a non essere più sicuro di poter gestire la situazione.
Nel suo continuo agitarsi, si siede sulla poltrona, poi si rialza, poi si risiede.
In un momento la poltrona è già piena di sabbia, e mi domando se quelli del bar faranno noie: per questo per un attimo penso che forse dovremmo spostarci, andare in un posto dove non possa sporcare con tutta quella sabbia che ha addosso, ma è già difficile infondergli un po’ di calma in un patio su un divanetto, figuriamoci in piedi sulla spiaggia o di sbieco su un lettino. Decido di fregarmene della sabbia e penso: “Oh, fanculo, se fanno problemi gli pagherò la tintoria per questo cuscino”.
Matteo finalmente resta seduto per più di qualche secondo, e continua a parlare della mamma arrabbiata.
“Voglio fare pace con la mamma”, continua a dire piangendo disperato.
“Stai tranquillo, la farai” gli ripeto con la voce più rassicurante che riesco a trovare, e mi sistemo sul divano preparandomi a una chiacchierata difficile.
Serena è sulla poltrona accanto a me, io la guardo e le chiedo: “Prendiamo qualcosa?”
“Certo, cosa vuoi?”
“Un’acqua tonica, e prendiamo qualcosa anche per Matteo”
Ci guardiamo, entrambi pensiamo di comprargli un gelato, delle patatine o una coca cola, ma ci basta uno sguardo tra di noi per capire che non è il caso di comprare qualcosa a Matteo senza prima aver consultato la mamma, e la mamma è troppo lontana, è tornata nell’acqua e continua a camminare avanti e indietro, questa volta con il cellulare all’orecchio.
Diciamo contemporaneamente “No, no” e decidiamo di prendere semplicemente dell’acqua.
“La vuoi dell’acqua, Matteo?”, chiedo.
“Sì”, risponde, sempre piangendo.
Mentre Serena si avvia verso il bar, io cerco ancora di calmarlo, ripetendogli che la mamma è solo preoccupata, e che presto di sicuro faranno pace.
Arriva Serena, dietro di lei un cameriere con un vassoio, sopra ci sono due acque toniche in bicchieri di vetro, una bottiglietta d’acqua liscia e dei bicchieri di plastica.
Apro l’acqua, è ghiacciata, ne verso tre dita in un bicchiere di plastica e poi lo porgo a Matteo: “Tieni, Matteo, bevi, ma ti prego, fallo lentamente perché l’acqua è ghiacciata”.
Matteo ubbidisce e beve a piccoli sorsi lenti, interrotti dai singhiozzi del pianto. Finita l’acqua, poggia il bicchiere sul tavolino, gli chiedo se ne vuole ancora. Lui risponde di sì e allunga le mani verso il bicchiere di vetro con la mia acqua tonica.
“No, Matteo, quello è il mio bicchiere. Questo è il tuo” e gli porgo il bicchiere di plastica che aveva appena posato, e che stava proprio accanto al mio.
Lui guarda ancora sul tavolo e vede gli altri bicchieri di plastica impilati.
“E quelli di chi sono?”
“Sono per gli altri, per chi ha sete”
“Ma quanti sono?”
Vedo che gli occhi sono indirizzati verso i bicchieri, ma sono sempre mezzi chiusi, non riesce a distinguere bene.
“Sono sei, bastano per tutti, non ti preoccupare. Ma tu hai già questo”, rispondo, e gli porgo il bicchiere riempito con altre tre dita d’acqua.
Beve a piccoli sorsi anche questo, e tra un sorso e l’altro mi dice di nuovo che la mamma è arrabbiata.
Decido di cambiare strategia, e cerco di rassicurarlo su quello che probabilmente gli sta più a cuore:
“Matteo, lo so, la mamma adesso è arrabbiata con te, ma devi stare tranquillo: anche quando è arrabbiata, la mamma ti vuole bene lo stesso.”
“Davvero?”
Forse ho colpito nel segno.
“Certo, Matteo, ti vuole bene lo stesso”.
Non è una lezione facile da imparare, per un bambino, io l’ho imparata da grande, e proprio negli ultimi mesi abbiamo cercato di farla capire bene a Marco, ma soprattutto ad Andrea, per fargli capire che può sbagliare, che può accadere che faccia qualcosa che fa arrabbiare le persone, ma che le persone gli vogliono bene anche quando sono arrabbiate. Che l’arrabbiatura passa, l’affetto resta. La paura di perdere l’affetto di una persona per un’arrabbiatura può portare un bambino a sentirsi in dovere di non sbagliare mai, e a struggersi oltremodo quando gli capita, inevitabilmente e naturalmente, di sbagliare.
A me l’ha insegnato da poco una cara amica, io sto cercando di insegnarlo ai miei bambini affinché crescano concedendosi di sbagliare.
“Anche io mi arrabbio con i miei bambini, ma gli voglio bene lo stesso”
“E ti arrabbi tanto?”
“Eh, dipende. Certi giorni mi arrabbio tanto e certi giorni non mi arrabbio per niente”
“E certi giorni ti arrabbi solo un po’?”, chiede. I bambini pretendono precisione, non si può passare da tanto a niente senza avere nulla nel mezzo.
“Sì, ogni tanto mi arrabbio un po’”.
“Per esempio quando è che ti arrabbi tanto?”
La domanda mi spiazza. Cerco di trovare un’arrabbiatura che sia paragonabile a quella della madre al momento, una di quelle arrabbiature per le quali devi persino allontanarti da tuo figlio, ma non me ne viene in mente neanche una. Non posso perdere tempo a cercare di ricordare se c’è mai stata, Matteo è lì accanto a me, finalmente sono riuscito a catturare la sua attenzione e devo dargli delle risposte.
“Per esempio, Andrea ogni giorno, quando ci mettiamo a tavola a mangiare, appena si siede si leva le scarpe. Sotto al tavolo! E poi le lascia lì! E noi ci troviamo sempre queste scarpe in mezzo. E io ogni volta gli dico che non lo deve fare, che le deve mettere a posto. E l’altro giorno gli ho detto «Adesso ti stacco i piedi, così non ti servono più le scarpe e il problema si risolve!».
Mi rendo conto che Matteo non può vedere la mia faccia buffa, e quindi mi affretto ad aggiungere: “Naturalmente scherzo, mica gli stacco i piedi, però lui lo sa che mi fa arrabbiare”.
Matteo mi ascolta. Io cambio discorso.
“Matteo, ma lo sai che la tua voce somiglia a quella del mio nipotino?”
“Chi è?”
“Si chiama Simone, e ha una voce molto simile alla tua”.
Sto per dirgli l’età di Simone, quando penso che implicitamente gli direi che ha una voce da bambino più piccolo di quello che è, e quindi mi sto zitto.
Gli occhi sono sempre un po’ bassi davanti a sé. Ha smesso di piangere. Nel frattempo si è avvicinato Andrea per farsi sistemare i pantaloni, e io colgo la palla al balzo.
“Oh, ecco Andrea, adesso lo chiediamo a lui. Andrea, che cosa vi dico sempre, quando ci arrabbiamo con voi, vi vogliamo bene lo stesso o no?” e lui risponde:
“Certo!”
Matteo ascolta e poi chiede: “Chi è lui?”
“È Andrea, uno dei miei figli”.
“Quanti bambini hai?”
“Due. Andrea, che ha 9 anni, e Marco, che ne ha 5”.
“E adesso ne hai tre.”
“E chi sono?”, pensando si riferisca a Simone.
“Andrea, Marco e io”
“No, Matteo, tu sei un mio amico e mi fa piacere parlare con te, ma io non sono tuo papà. Come si chiama il tuo papà?”
Matteo guarda fisso davanti. Io vedo gli occhi muoversi velocemente a destra e sinistra sotto le palpebre, immagino stia pensando. Non posso però indovinare se sta pensando a ciò che gli ho detto o a ciò che gli ho domandato.
Aspetto ancora qualche attimo, poi gli ripeto la domanda: “Come si chiama tuo papà?”
“Sul telefono quando chiama c’è scritto Flavio”
Sbarro gli occhi. Perché un bambino risponde così? Perché non pronuncia semplicemente il nome di suo padre?
Comincio a immaginare che la situazione sia ancora più complicata di quello che sembra. Magari questo Flavio non è il suo vero padre. Eppure la mamma aveva parlato di “suo padre”. Magari questo Flavio è il compagno della madre, e magari ne ha le scatole piene di questo figlio handicappato a cui deve comprare gli occhiali, e fargli fare visite, e stare sempre attento. Cerco di farmi passare dalla testa questi pensieri da film tragici.
“Sabrina lo chiama signor Flavio”
È incredibile. Io ci provo a non pensare, ma le risposte di questo bambino fanno venire i brividi.
“Chi è Sabrina?”
“La tata”
“Ah, ho capito. E dove sta papà adesso?”
“Mi porti da papà? Voglio andare da papà. Mamma è arrabbiata, voglio andare da papà”
“Matteo, tesoro, ma io non so dove sta papà. È a Roma? Vive a Roma? Sta lavorando?”
“Non lo so, voglio andare da papà.”
“Ma voi quando siete venuti qui al mare?”, gli domando.
“Ieri. No, forse oggi.”
“E come siete venuti, con la macchina?”
“Sì, perché, potevamo venire anche con la moto?”
“Certo, qui si può arrivare in un sacco di modi. Con la macchina, con la moto, pensa che c’è chi ci viene anche in barca.”
“E poi?”
“E poi cosa?”
“In che altri modi si può arrivare qui?”
“Ah, allora, abbiamo detto con la macchina, con la moto, con la barca, con l’autobus, con la corriera, che è praticamente come un’autobus, con la bicicletta, con una carrozza, a cavallo, con i pattini…”
“Con l’aereo?”
“Eh, no, con l’aereo no”
“Perché?”
“Perché per far atterrare l’aereo ci vuole un sacco di spazio, ma questo è un paese piccolo, quindi non c’è spazio per far atterrare un aereo”
Pensa ancora un po’ alla mia risposta, e poi mi domanda:
“E poi quando ti arrabbi?”
Ancora con il pensiero dell’arrabbiatura.
“Fammi pensare… ah, sempre a tavola, quando i bambini non stanno seduti per bene. E poi ancora con queste scarpe, le lasciano dappertutto! Se non stanno sotto al tavolo sono davanti al divano. Appena arrivano a casa si levano le scarpe e le lasciano davanti al divano! E allora io mi arrabbio e grido: «Andrea! Marco! Andate a mettere a posto queste scarpe benedette!» ma anche mentre sono arrabbiato e gli dico questo, gli voglio bene lo stesso.”
“Ma la prima volta glielo dici piano?”
Dio mio, questo bambino. Ma quanto spesso lo sgridano, invece di aiutarlo? Quanto spesso sono arrabbiati con lui? Lo so, non dovrei mettermi a giudicare situazioni che non conosco affatto, ma questo bambino sembra ossessionato dalle arrabbiature. Rispondo sinceramente.
“Certo, le prime volte, quando loro non lo sapevano che cosa dovevano fare, gliel’ho detto con calma che era meglio che mettessero le scarpe a posto, ma adesso lo sanno bene, quindi se non lo fanno mi arrabbio subito. Ma gli voglio bene lo stesso”
Nel frattempo arriva Marco al nostro divanetto, per farsi sistemare i pantaloni da Serena.
“Oh, ecco, è arrivato anche Marco, adesso chiediamo anche a lui”
“Chi è Marco?”, chiede Matteo.
“È l’altro mio bambino.”
“Quanti bambini hai?”
Pazientemente, rispondo di nuovo: “Due, Andrea e Marco”.
“E c’è anche Andrea adesso?”
Non riesco proprio a capire cosa e quanto vede.
“No, Andrea è sulla riva, sta giocando con l’acqua”.
Chiedo anche a lui: “Marco, quando noi ci arrabbiamo con voi, vi vogliamo bene lo stesso?”
“Certo”, risponde Marco.
“Visto?”, dico a Matteo.
“E per cosa ti arrabbi con Simone?”
Gulp. Mai arrabbiato con Simone. Sia perché, purtroppo, lo vedo troppo poco, sia perché di solito lascio che siano i genitori ad arrabbiarsi con i propri figli. Ma queste non sono certo risposte che possono soddisfare Matteo, specialmente quella in cui dico che non mi sono mai arrabbiato con Simone. Probabilmente la troverebbe una cosa inconcepibile.
Prendo tempo cercando di inventare un motivo per cui potrei essermi arrabbiato con Simone.
“Dunque, con Simone mi arrabbio quando…” dico ad alta voce. Mi viene in soccorso Marco: “Quando ogni tanto picchia qualcuno”
Simone che picchia qualcuno? Penso dentro di me. Questo sì che è inconcepibile, chissà come è venuto in mente a Marco. Ma ormai è fatta, e quindi dico: “Eh, sì, quando ogni tanto magari dà le spinte a qualcuno, allora mi arrabbio, ma glielo spiego e comunque gli voglio bene lo stesso.”
Vedo che Matteo ha ricominciato a tremare.
Mi giro verso Serena, chiedendole se abbiamo qualcosa con cui coprirlo.
“Posso andare a prendere in macchina il giacchetto di Marco”, risponde, ma io decido di andare verso i lettini di Matteo, immaginando di trovare lì qualcosa. Matteo viene dietro di me. Trovo solo un asciugamano leggero, glielo metto sulle spalle, dopodiché lui inizia a muoversi come un ossesso tra i vari lettini.
Marco è venuto con noi e osserva la scena. Matteo si accorge della sua presenza e chiede: “Chi è lui?”
“È Marco”, rispondo.
“E Andrea dov’è?”
“È a riva, sta giocando con l’acqua.”
“E posso giocare insieme a voi, Marco?”, chiede Matteo.
“Certo, andiamo!”, risponde Marco, e iniziano a correre assieme verso la riva.
Osservo Matteo che, nonostante il suo problema, corre quasi come un bambino con una vista normale. Gli grido: “Matteo, aspetta, lascia l’asciugamano!”
Lui torna indietro, ma invece di venire verso di me prende una traiettoria alla mia sinistra. Con calma lo avviso: “Matteo, sono di qua”. Lui sente la mia voce e gira nettamente alla sua sinistra e viene precisamente davanti a me.
Invece di levarsi l’asciugamano, se lo tiene sulle spalle e si sdraia goffamente su un lettino.
“Adesso puoi restare qui sul lettino a farmi compagnia?”
“No, Matteo, preferisco tornare sul divanetto, se vuoi puoi venire di nuovo con me, ma perché non giochi un po’ con Marco e Andrea?”
Si alza dal lettino e risponde: “Sì, con Marco e Andrea!”, lascia l’asciugamano e va di nuovo verso la riva.
Io lo guardo, cercando di vedere se effettivamente riesce ad arrivare fino alla riva, ma lui dopo qualche passo fa per tornare indietro, poi di nuovo in avanti, poi indietro. Sembra una mosca che cambia continuamente direzione, indecisa sul da farsi. Poi finalmente va verso la riva e si mette a giocare con Marco e Andrea.
Io torno al bar, mi siedo sul divanetto e mi sento triste e soddisfatto. Soddisfatto, perché sono riuscito a far calmare quel bambino che sembrava inconsolabile, e triste, perché non riesco neanche a immaginare le difficoltà sue e della sua famiglia.
Stringo a me Serena, guardando da lontano i nostri bambini giocare con Matteo, riflettendo su quanto siano piccoli i problemi da cui mi lascio affliggere quotidianamente.
Ci accorgiamo che Matteo sta parlando al cellulare, forse finalmente sta parlando con suo padre, sembra contento, continua ad andare avanti e indietro con questo cellulare.
Serena e io non possiamo fare a meno di essere terrorizzati all’idea che quel cellulare possa cadere in acqua, facendo arrabbiare ancora di più la madre. Serena fa addirittura per richiamare Andrea e Marco, in modo che non lo possano colpire inavvertitamente, contribuendo così ad una nuova situazione di tensione, ma io la fermo con un lapidario e sintetico: “No, Sere’, mica possiamo fa’ così” che in realtà vuol dire: “Se questa è così scema da non pensare che un cellulare in mano a un bambino sulla riva del mare può fare una brutta fine, sono cavoli suoi. E se il cellulare cade e prova a dire qualcosa a Matteo, vado a dirgliene quattro”.
Per fortuna il cellulare non cade e Matteo lo riporta alla madre che gli dice che devono andare.
Mi tranquillizzo e mi distraggo per qualche minuto guardando il cellulare, e quando rialzo lo sguardo Matteo e la madre sono sotto al gazebo, diretti verso l’uscita.
La madre non si avvicina neanche a ringraziare, ma io penso solo a Matteo: lo guardo, quella testa sempre un po’ piegata, la camminata un po’ incerta, ma svelta e nervosa, chiede qualcosa alla madre.
Vorrei alzarmi per andare a salutarlo, vorrei andare ad abbracciarlo, vorrei portarlo via con me. Vorrei almeno andare a ricordargli che le persone gli vogliono bene lo stesso. Almeno io gliene voglio. Ma non faccio niente di tutto questo. Lo guardo salire i gradini, sparire dopo l’uscita, e spero che si ricordi di quello che gli ha detto il suo amico. Spero che le mie parole restino dentro di lui, e che lui continui a pensare che la mamma gli vuole bene lo stesso, anche quando è arrabbiata.
Spero che lui continui a pensare che la mamma gli vuole bene lo stesso. Anche se non è vero.

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Nel reparto Microsoft dedicato alla creazione dei nomi dei prodotti

Sviluppatore: “Raga, abbiamo creato un database server”

Inventore Di Nomi: “Figo, che roba è?”
S: “Sai cosa è un server?”
IDN: “Certo.”
S: “Ecco, questo è un server che permette di contenere dati strutturati e di fare poi delle interrogazioni tramite SQL.”
IDN: “Perfetto. Lo chiameremo SQL Server”.
S: “…”
S: “Raga, abbiamo creato un browser”
IDN: “Figo, che roba è?”
S: “Serve per navigare su internet”
IDN: “Perfetto. Lo chiameremo Internet Navigator”
S: “Mah, sai, veramente ci sarebbe già un Netscape Navigator”
IDN: “Perfetto, lo chiameremo Internet Explorer”
S: “…”
S: “Raga, abbiamo fatto un nuovo framework. Come lo chiamiamo?”
IDN: “Cosa fa questo framework?”
S: “È un framework per lo sviluppo web che segue il design pattern MVC”.
IDN: “Perfetto. Lo chiameremo MVC.”
S: “…”
S: “Raga, abbiamo creato un nuovo framework. Come lo chiamiamo?”
IDN: “Cosa fa questo framework?”
S: “In pratica è un ORM”
IDN: “Perfetto. Lo chiameremo OR…”
S: “Oddio ancora… No, scusa, mi sono espresso male. Volevo dire che è un framework che permette di gestire le entità”
IDN: “Perfetto. Lo chiameremo Entity. Entity Framework”
S: “…”
S: “Raga, abbiamo creato un telefono!”
IDN: “Figo, come è fatto?”
S: “Praticamente è come un iPhone. Però gli abbiamo levato iOS e ci abbiamo messo Windows”
IDN: “Perfetto, lo chiameremo Windows Phone”
S: “…”
S: “Raga, abbiamo creato un nuovo linguaggio di interrogazione dati”
IDN: “Figo, cosa fa?”
S: “Permette di eseguire tipo delle query SQL, ma sugli oggetti anziché sulle tabelle, e tira fuori tutti gli oggetti collegati tra di loro.”
IDN: “Collegati? Perfetto. Lo chiameremo LINK”
S: “No, dai, stavolta non si può. Chiamare una cosa LINK è troppo persino per te.”
IDN: “Dici?”
S: “Dico.”
IDN: “Perfetto. Lo chiameremo LINQ”.
S: “…”
S: “Raga, abbiamo creato un nuovo prodotto per la comunicazione istantanea”
IDN: “Ma non avevamo già Messenger?”
S: “Sì, ma quello era una roba da ragazzini, questo è più professionale”
IDN: “Ma per quello non avevamo comprato Skype?”
S: “Sì, ma lo abbiamo fatto solo per ammazzarlo, versione dopo versione. Ma comunque questo fa molto di più. Collega le persone, i dispositivi, le risorse… è tutto un collegamento…”
IDN: “Perfetto. Se collega tutto, lo chiameremo LINK”
S: “Senti, ne abbiamo già parlato. Non puoi chiamare una cosa LINK, è troppo generico.”
IDN: “Dici?”
S: “Dico.”
IDN: “Perfetto. Lo chiameremo LYNC”.
S: “…”
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Lego Juniors: i Lego “da grandi” per i costruttori più piccoli

La mia passione per i Lego non è una novità, e Andrea se ne è sempre trovato in giro qualcuno, prima quelli miei, e poi quelli che ha ricevuto lui in regalo, già da quando aveva quattro o cinque anni: a quell’età riusciva già a unire diversi mattoncini per dare forma ad astronavi o a macchinine, ad uccelli e draghi, ma non riusciva a seguire le istruzioni delle confezioni che gli venivano regalate, e quindi chiedeva a me di costruirle e poi lui ci giocava. Io mi rilassavo costruendo il set e godendo di tutta l’ingegneria e l’inventiva che c’è dietro ogni modello di Lego, e nel frattempo lui costruiva cose con i mattoncini sciolti, che abbiamo in gran quantità; finito di costruire il set, lui iniziava a giocarci.

Man mano che lui cresceva sono riuscito a coinvolgerlo facendogli prima cercare i pezzi, poi facendogli assemblare le parti più semplici e adesso, ovviamente, non ha più bisogno di me da un pezzo per seguire le istruzioni (ma fortunatamente chiede ancora tanti consigli quando costruisce liberamente, soprattutto quando progetta i Lego sul computer).
Tutto ok, solo che… è arrivato Marco. Marco non ha la stessa passione che ha Andrea per i Lego, ma è pur sempre un bambino e quindi gli piacciono: solo che, come in tutte le altre cose, si paragona con il fratello, e non riesce facilmente ad accettare che Andrea costruisca modelli complessi seguendo le istruzioni e lui invece no. Farsi aiutare da me è una cosa che fa poco volentieri, perché preferirebbe essere autonomo, e questo finisce per inibirlo anche nelle costruzioni libere, sempre per problemi di confronto con il fratello grande.

Mi domandavo come fargli capire che era normale non riuscire a fare tutto subito, che anche Andrea alla sua età non era questo gran “mastro costruttore” che è oggi, quando ho visto che è uscita una nuova serie, chiamata Lego Juniors, pensata per i bambini dai 4 ai 7 anni: ho studiato un po’ le confezioni e mi sono convinto che poteva essere la strada giusta. I mattoncini sono i Lego standard (niente Duplo “da piccoli”!) ma i set sono semplificati con l’ausilio di alcuni “prefabbricati”, come nella stazione di polizia, in cui diverse pareti sono pezzi unici e non sono composti da molti mattoncini, come sarebbe invece in una confezione classica.
Gli abbiamo fatto regalare proprio la stazione di polizia e oggi ci abbiamo giocato: è stato fantastico. Marco è riuscito a seguire le istruzioni senza alcun problema, ha incastrato tutti i mattoncini, che seguivano uno schema abbastanza semplice, ed in un tempo ragionevole è riuscito a costrurire l’intero set “tutto da solo”: si è sentito molto soddisfatto e contento, e oltretutto anche Andrea voleva giocare con il set dopo che Marco l’aveva costruito!
Non so se Marco diventerà un appassionato come me e Andrea, ma so che in questo particolare frangente la linea Lego Juniors ha davvero colto nel segno.

Tra l’altro, guardando come Marco approcciava alla ricerca dei pezzi e al montaggio, mi sono reso conto una volta di più di quanto un gioco semplice come i Lego sia eccezionale durante la crescita di un bambino, perché si presta a sviluppare e a trasmettere talmente tanti concetti tutti insieme: l’uso delle istruzioni e dei pezzetti da radunare in ogni pagina per fare ciò che è scritto aiuta a sviluppare la capacità di seguire un piano, di organizzare il lavoro, di eseguire delle verifiche; guardare le figure per capire dove mettere i mattoncini aiuta a sviluppare un pensiero tridimensionale; contare i pallini per capire se il pezzo è quello giusto aiuta a conoscere i numeri, le somme e le moltiplicazioni; vedere come i pezzi che prima erano traballanti vengono saldati da un pezzo trasversale aiuta a comprendere le basi dell’ingegneria; vedere come un pezzo normalmente utilizzato in un modo può essere usato per tutt’altro aiuta a sviluppare un pensiero laterale; e infine, non seguire le istruzioni e lasciare libero sfogo alla fantasia per costruire ciò che si vuole aiuta ad essere creativi e a sviluppare l’immaginazione.

Praticamente è un gioco quasi perfetto!

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Tutti morti

Tutti morti. Quelli che hanno vissuto in questa casa sono tutti morti.
Me ne rendo conto all’improvviso. Io sono venuto a svuotare casa di nonna, ma tirando giù ricordi, oggetti e lettere realizzo con violenza che questa casa non è stata solo sua. Per tanti, troppi anni, ci ha vissuto solo lei. Ma non sempre. Prima, con lei, c’erano altre persone, che adesso non ci sono più. Sono morti.
Il maresciallo dell’aereonautica, mio nonno, che non ho mai conosciuto.
Poi mia mamma. Poi mio zio. E infine mia nonna.
In questa casa sono venuti ad abitare più di quaranta anni fa, sono stati famiglia qui. Forse, quella che ci ha vissuto meno è stata mamma, che si è sposata dopo poco che si erano trasferiti qui.
E oggi io rovisto tra le loro memorie, tra le memorie di chi non c’è più.
In cerca di un documento che potrebbe semplificarmi le cose, tiro giù tutto ciò che c’è in casa, che tanto va liberata, è già stata venduta, anni fa, in nuda proprietà, per coprire debiti di altri.
La sventro di ogni oggetto e di ogni carta, cerco di guardare le cose e i documenti con animo cinico e pratico, ma non ci riesco, mi arrendo.
Mi imbatto nelle vite di quattro persone, nelle loro vite fino a che hanno vissuto qui, ed è un viaggio malinconico e doloroso.
Vedo le foto della campagna di Russia di mio nonno, il certificato di medaglia d’argento al valor militare, una causa che gli hanno intentato nel 1970, le sue cartelle cliniche, il ricovero per epatite nel 1977, le analisi e gli altri ricoveri, il certificato di morte, la busta di carta straripante di telegrammi di condoglianze.
La richiesta di pensione di nonna, le risposte del ministero con una forma e un rispetto che non so se si usano ancora, i foglietti cattolici sulla vedovanza, i santini, mio dio quanti santini, nonna li metteva ovunque, nei libri, nelle bollette, nelle lettere.
Le bollette, raggruppate in mucchietti e stipate ovunque: nei cassetti dello studio, in cucina, nei cassetti della biancheria in camera da letto. Ma non è stato sempre così: aprendo i faldoni nello studio mi accorgo che più o meno fino a che nonno è stato in vita, le bollette e le carte erano in ordine, raggruppate e catalogate.
Devo aver preso da lui. Se fosse stato in vita, magari gli avrei fatto vedere anche come poteva scannerizzarle.
Nonna invece lasciava tutto dappertutto, ma ci metteva un suo tocco: prendeva un po’ di carte, non necessariamente attinenti tra di loro, e le infilava in una bustina di plastica tipo quelle degli alimenti, e poi le metteva da qualche parte. Era piena di queste bustine di plastica che contenevano buste di carta che contenevano bollette. Su alcune cose, però, metteva un tocco personale: scriveva un appunto su ciò che quella carta significava per lei. Allora sulla lettera che ufficializzava una sua carica all’interno della chiesa, un foglio spillato recava un suo messaggio “Confermata per il terzo anno. Grazie!”
Oppure rispondeva ai biglietti di auguri sul biglietto stesso che aveva ricevuto: ne ho trovato uno, scritto da zio per il suo compleanno, in cui lei sull’altra pagina aveva scritto “Grazie per gli auguri e anche per il profumo”
Poi i biglietti d’amore e d’auguri tra lei e il nonno. Oppure sulle bollette, sulla busta esterna, una scritta minacciosa: “Francesco leggi”. A me dedicava queste cose un po’ più pratiche, anche se poi nascosto in un cassetto ho trovato il mio primo biglietto da visita, fatto dalla prima azienda in cui ho lavorato, che le avevo regalato e che lei aveva conservato gelosamente come tutto il resto.
Metteva protezioni di plastica sui libri, sulla parte superiore, esposta, in modo che la polvere non andasse direttamente sulla carta. Spargeva occhiali, santini ditali e ferri per la maglia ovunque. Li ho trovati letteralmente ovunque. E non buttava nulla, mai. E quando dico nulla, intendo che ho trovato persino un pezzo di dentiera in un cassetto. Nonna, hai esagerato.
Continuo a rovistare e trovo riviste di uncinetto, centinaia di pubblicazioni ecclesiali, biglietti di auguri, lettere. La lettera di mio zio ai suoi genitori, scritta nel giorno dell’arrivo all’aereoporto di Trapani per l’inizio del suo anno di militare. Le lettere di mio zio, quelle che ha ricevuto mentre era lì. Il suo diario e le sue innumerevoli donne. I quaderni della scuola e dell’università, le sue pagelle, le sue fotografie in primo piano a distanza di qualche anno l’una dall’altra, le foto del suo primo, dannato matrimonio, e quelle del suo secondo, che abbiamo organizzato assieme. Le lettere di un suo amico scansafatiche, che però lo pensava e gli scriveva.
La statua di Napoleone che lui e mamma si litigavano su chi l’avrebbe avuta alla morte di nonna, e invece nessuno dei due ha potuto goderla.
La lettera di mia mamma a nonna, partita qualche giorno per andare non so bene dove, in cui le racconta tra le altre cose di mio papà che le ha comprato un cappello nero, e io capisco che quel cappello è quello che ho conservato nel mio armadio, dopo la sua morte.
Le foto di mia mamma: da piccola, con il nonno, a scuola a Napoli, in prima, seconda, terza elementare, da signorina, da sposa. Guardo la foto da sposa e vedo una ragazzina, mi domando che pensava quando era così giovane.
La guardo negli occhi e vedo gli stessi identici occhi che mi hanno cresciuto, che mi hanno sgridato e abbracciato, festeggiato e fatto forza, quegli occhi che spalancava per far ridere Andrea, durante i due mesi in cui sono stati assieme su questa terra.
Rovisto e tiro fuori, decido cosa tenere e cosa buttare, secondo il mio unico parere. Mi sembra una violenza, nonna non avrebbe buttato quasi niente di ciò che sto buttando io, ma lei non c’è e io devo decidere.
Continuo a rovistare, devo cercare un documento, non so più neanche a cosa mi serve, ma continuo a guardare tra le carte: sono combattuto tra il pudore di leggere corrispondenza di altri e il mio bisogno, il mio forte desiderio: voglio vivere scampoli di vita che hanno vissuto loro, voglio saperne di più di quanto mi sia stato concesso di sapere, perché a loro non posso chiedere più nulla, non posso farmelo raccontare. Mamma e zio sono andati via presto, troppo presto, prima che io fossi abbastanza maturo da poter apprezzare tante cose, prima che potessi capire tante cose.
Raduno i giornali vecchi di 40, 50, 60 anni, li metto da parte, conosco un negozio dove forse li prendono: non mi interessa tirare fuori qualche euro, mi interessa non buttare tutto: voglio che qualcosa di tutto ciò che c’è qui continui a vivere, dia felicità a qualcun altro.
Come la porcellana con i due vecchietti poveri e innamorati, lei che fa l’uncinetto e lui che le porge un fiore, e vicino a loro una scritta “il cuore non invecchia”. Passavo le ore da piccolo a guardarla, affascinato dalle fattezze dei due vecchietti, dalle rughe ricreate con la porcellana, dall’uomo chino verso la sua donna a porgerle il fiore appena raccolto. Ma non volevo prenderla io: ero quasi certo che non avrei trovato la giusta collocazione a casa mia, o forse non avrebbe più avuto lo stesso significato per me, se me la fossi trovata davanti agli occhi tutti i giorni. Ma mi dispiaceva darla via. Ho scoperto che ad Annamaria, la mamma di Serena, piaceva molto, e quando le ho detto che gliela regalavo non ci stava più dalla gioia. Non avrei saputo immaginare un conclusione migliore per quella statuina: dalla famiglia che non ho più, a quella che mi ha accolto come un figlio.
Adesso è tempo di tornare a rovistare tra queste carte, ma non ne ho voglia. Voglio scappare da questa casa e non tornarci più, e cercare di ricordarla com’era prima che tutto questo accadesse, quando venivo qui a dormire con mio fratello, quando facevamo i pranzi con il servizio buono, quando mamma veniva a vedere come stava nonna, quando poi è toccato a me, quando venivo a trovarla con i miei bambini, quando venivo a controllare che facevano le badanti, quando venivo a prendere le cose che potevano servirle in casa di riposo.
Quando mi facevo raccontare le storie del nonno che non ho mai conosciuto, come quella volta che sono andati in viaggio in Austria e nonno si è seduto su una panchina a Vienna e si è messo a piangere, raccontando che su quella panchina si era riposato dopo giorni di cammino di ritorno dalla campagna in Russia.

Forse, per questo pezzo di vita mia, questa volta è davvero la fine.

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Friends

I need your voice.
I need your thoughts.
I need your ears.
I need your words.
I need our words.
I need your couch.
Your home’s odour.
Your smile.
Your tears.
Your hugs.

Our silences.

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La banca dei moduli

Vagavo stordito su una strada larga di città. Una di quelle arterie veloci a quattro corsie, che dalla periferia portano fino in centro urlando e ululando, quando non sono congestionate dal traffico mattutino.
Era mattina, intorno alle 10. Un martedì. Mi trascinavo lento sul marciapiede, guardando intorno a me il paesaggio urbano, noto in qualche angolo della mia memoria, eppure sconosciuto in quel momento. Non riconoscevo una sola strada, un angolo, un negozio, un palazzo. Eppure qualcosa dentro di me mi diceva che ero già stato lì.
La strada urlante era deserta e silenziosa. Un cielo grigio scuro incombeva sui palazzi sgraziati che si ergevano ai lati della strada.
Smarrito, mi guardavo intorno, finché notai un palazzo diverso dagli altri. Era alto due, massimo tre piani, non si riusciva a intendere bene perché la sua forma era irregolare: cubica da una parte, leggermente ovale da un lato, un cilindro che emergeva da un terrazzo e si protendeva sulla destra, a fare ombra sulla strada sottostante. Era un insieme indefinito di forme geometriche tridimensionali: era come se fosse stato costruito da un bambino che gioca con i solidi di legno colorati, e cerca di mettere uno sull’altro un cilindro, un cubo, una piramide, una sfera. Un insieme di cose poggiate senza senso, che stavano su in barba a qualsiasi legge della fisica: orribile e affascinante come solo le cose incomprensibili sanno essere.
Il palazzo era grande, eppure non lo avevo visto mentre mi avvicinavo.
Era come se si fosse materializzato di fronte a me all’improvviso.
Mentre guardavo verso l’alto a cercare di capire tutte le sue forme, sentivo un luce forte premere dietro la spessa coltre grigia che continuava ad opprimere tutto. In giro, nessun altro. Continuai a guardare il palazzo percorrrendo la sua lunghezza, finché mi trovai davanti all’ingresso principale.
Una porta di un paio di metri, in vetro. Accanto ad essa, un ometto fumava una sigaretta e mi guardava. Cercai una targa, un’insegna, qualcosa che mi dicesse cosa ci fosse in quel palazzo, ma non vidi nulla. Sentivo gli occhi dell’ometto fissi su di me. Lo guardai e lo fissai anche io. Restammo così, occhi negli occhi, per qualche secondo, in attesa che accadesse qualcosa. Lui mi guardava asciutto, io ero frastornato e anche un po’ inquieto. Mi feci coraggio e chiesi:
“Scusi, sa dirmi cosa c’è qui dentro?”
Il vecchio increspò le labbra in un sorriso sornione.
“Certo. C’è la PA”, rispose.
“La PA?”
“Sì, ragazzo, la PA”.
“Mi scusi, ma cosa è la PA?”
“La Pubblica Amministrazione.”
“La Pubblica Amministrazione?” chiesi senza essere sicuro di aver capito bene.
“Esatto”, rispose tranquillo il vecchio.
“Ma quale?”, domandai.
“Quale cosa?”
“Quale Pubblica Amministrazione c’è qui? La regione? Il comune?”
“Tutte”, rispose secco.
“Tutte?” domandai.
“Tutte” ripetè il vecchio.
“Ma questo non ha senso” dissi quasi tra me e me, ma il vecchio udì.
“Certo che lo ha”, disse ancora tranquillo.
“Io… non capisco…” balbettai guardandomi intorno senza capire.
“Questa è la sede centrale della PA. Tutto ciò che c’è nella PA origina da qui”, disse il vecchio con l’intento di spiegarmi, ma senza fugare minimamente i miei dubbi.
“Ma che vuol dire?” chiesi alzando la voce. I nervi iniziavano a cedere. Non capivo cosa volesse dire.
“Calmati” intimò tranquillo il vecchio. “Tutto quello che accade nella PA è deciso qui dentro. I ruoli, le regole, i procedimenti, i moduli, i ricorsi, i bolli. Tutto viene determinato e diretto da qui. Per tutte le PA.”
“Ma com’è possibile che un palazzo così strambo e senza neanche una targa fuori sia il centro nevralgico della PA?” chiesi, e mentre terminavo la domanda mi resi conto che la realtà in effetti non poteva essere che quella.
Il vecchio sorrise un po’ più amabilmente, adesso che avevo iniziato a capire.
Sbirciai dalle porte di vetro per cercare di guardare dentro, ma non vidi nient’altro che un banco di accoglienza vuoto.
Il vecchio sbuffò fuori l’ultimo tiro della sigaretta e chiese:
“Vuoi fare un giro?”
Lo guardai.
“Perché, lei lavora qui?”
“Certo.”
“Non sembrava stesse lavorando.”
“Ero in pausa”, rispose tranquillo. Si avvicinò all’ingresso, spinse una delle due porte per metà, poi si voltò verso di me e disse: “Allora, vuoi entrare?”
Feci un cenno affermativo con la testa e lo seguii.
Dentro c’era poca luce. Al banco accettazione non c’era nessuno. Sulla destra un corridoio che si intuiva lunghissimo, con decine di porte su entrambi i lati. A sinistra, un corridoio gemello. Non si vedeva anima viva.
“Ma dove sono tutti?” chiesi.
“In pausa”, rispose.
Attonito mi guardai ancora intorno. Il vecchio iniziò a spiegarmi: nel corridoio di destra c’è la sezione formativa, la scuola della PA.
“Scuola?” chiesi. Non mi risultava ci fosse una scuola della PA.
“Una scuola, certo. Lì vengono formati gli impiegati. Gli viene insegnato tutto ciò che sanno. Il corso da impiegati di primo livello dura un giorno. Hai notato che tutti gli impiegati giovani sono solerti e volenterosi?” chiese.
“Sì…” balbettai interdetto.
“È perché sono inesperti. Il corso di primo livello insegna solo i rudimenti: come farsi timbrare il cartellino da un collega, come riconoscere il momento di maggior affluenza in un ufficio pubblico per chiudere uno sportello, cose così. Ma poi ogni due anni vengono fatti dei corsi di aggiornamento, e piano piano l’impiegato impara ad essere sgarbato, a ciancicare rumorosamente e sguaiatamente la gomma da masticare in faccia a un cittadino. Ci sono anche corsi di specializzazione dialettali, per rispondere ai cittadini nella maniera più consona. La mia insegnante preferita è Tamara, romana, che insegna un “aho, anvedi questa che pretende!” verace, come quello delle fruttivendole di Campo de’ Fiori dell’inizio del Novecento.”
Lo ascoltavo sbalordito. Lui proseguì:
“Però lì ancora non sono così bravi. Nei corsi successivi diventano dei veri esperti: imparano a perdere una pratica, a non ritrovare una pratica (che non è la stessa cosa, eh!), a fare la spesa durante l’orario di lavoro, a giocare al solitario dopo le normali otto ore lavorative per incassare gli straordinari. I più meritevoli, poi, fanno i corsi da dirigenti. Tecniche di negoziazione, appalto e subappalto, tangente 1 e 2, e così via. Fino al corso supremo, a cui possono aspirare solo in qualche decina: quello per ricoprire dieci, dodici, venti cariche contemporaneamente in diverse PA.”
Snocciolava tutte queste informazioni con orgoglio, mentre io lo ascoltavo frastornato, troppo sbalordito per mostrare il minimo segno di protesta.
“Ma lei… insegna qui?” chiesi.
“No, io lavoro già, nel caveau.”
“Caveau?”
“Sì, lo chiamiamo così. È la banca dei moduli”
“Banca dei moduli?”, chiesi. Non capivo.
“Vieni con me”, disse, e si avviò verso un ascensore.
Lo chiamò. Attendemmo. L’ascensore arrivò cigolante, entrammo. Dentro c’era un solo neon funzionante e una puzza di fumo stantio. Premette il pulsante -2.
Le porte si chiusero lentamente e rumorosamente, poi iniziammo la discesa.
Quando la porta si aprì, ci trovammo direttamente all’interno di una stanza, grande circa cinque metri per cinque. Un lampada pendente dal soffitto ronzava e illuminava con una luce fredda un scrivania solitaria grigia, posizionata al centro della stanza.
Sulla scrivania qualche timbro, una penna, una decina di faldoni di carta. Dietro la scrivania, una porta grigia, con un vetro smerigliato stretto e lungo e una maniglia di metallo.
“Benvenuto nel caveau!” disse arzillo il vecchio.
“Ma cosa…” iniziai a dire, ma non riuscii a proseguire.
L’uomo mi fece strada e si avvicinò alla porta alle spalle della scrivania: girò la chiave che era già nella toppa, diede una leggera spallata alla porta e l’aprì.
Davanti a noi si spalancò uno spazio che poteva essere grande come dieci capannoni industriali, pieno di scaffali.
Mi domandai per quanti metri sotto terra si estendesse quel luogo, mi sembrava potesse arrivare da una parte all’altra della città.
Decine, centinaia, forse migliaia di scaffali, come quelli che si trovano nelle biblioteche. Mossi timidamente qualche passo verso uno degli scaffali più vicini, per vedere cosa contenessero. Non c’erano libri, erano fogli di carta sciolti, pieni di righe, o di caselle, erano… erano…
“Moduli!” esclamò l’uomo. “Qui vengono conservati i mastri originali di tutti i moduli della PA!”
Mi guardai intorno e cominciai a leggere ad alta voce le etichette affisse sugli scaffali, una sotto ogni modulo: “Domanda di invalidità militare. Domanda di invalidità civile. Richiesta di emissione partita IVA. Iscrizione alla camera di commercio. Duplicato del codice fiscale. Dichiarazione dello stato di rifugiato. Richiesta di ricovero in struttura ospedaliera.”
Ero attonito. Mi guardavo intorno e vedevo ovunque moduli e targhette. Mi girava la testa. Quante volte avevo visto quei moduli! Certo, magari non esattamente ognuno di quelli, ma alla fine si somigliavano un po’ tutti…
“Cosa?” sentii dire al vecchio con voce adirata “Si somigliano un po’ tutti?”
Lo guardai incredulo. Avevo pronunciato i miei pensieri ad alta voce? O mi aveva letto nel pensiero? Quel posto era talmente assurdo che non mi sarei stupito di nulla.
“Ma come fai a dire che si somigliano un po’ tutti? Dietro ciascuno di questi moduli c’è uno studio approfondito, ore e ore di lavoro, di progettazione. Ogni modulo viene accuratamente studiato e verificato, passa attraverso un lungo processo di pre-approvazione e poi viene sottoposto a una verifica d’uso con dei cittadini comuni, e solo dopo che questa verifica è passata allora il modulo viene mandato ai piani alti per essere approvato e poi vidimato, pubblicato e infine emesso.
E il risultato è questo, quello che vedi qui, davanti ai tuoi occhi. Così come la Zecca dello Stato conserva le matrici del denaro, noi conserviamo le matrici dei moduli. Intonse, immacolate, perfette. Hai mai visto un modulo così perfetto?” chiese, e mi indicò il modello per la richiesta di licenza regionale per la raccolta dei funghi.
Lo guardai.
La carta era bianco latte, splendente, quasi fosse illuminata dall’interno. Le lettere erano perfette, una stampa in altissima definizione, senza il minimo segno di sbavatura, senza la minima imperfezione. Il trionfo della leggibilità.
“Ma… no, io non ho mai visto un modulo così…” dissi titubante.
“Certo che non lo hai visto. Nessuno ha mai visto come sono i moduli in origine. Quando li mandiamo alle PA non mandiamo mai l’originale, ma una fotocopia in bassa risoluzione, che di solito cerchiamo di fare storta di circa mezzo grado”
“Storta?”
“Sì, storta, insomma, facciamo in modo che le scritte fotocopiate siano inclinate di circa mezzo grado. Quel tanto che all’occhio fa percepire che pare ci sia qualcosa di strano, ma non è così evidente da prestarci tanta attenzione.
E quindi quando la PA riceve il nostro modulo e fa le proprie copie, non ci bada tanto. Tanto più che mezzo grado di inclinazione è proprio l’errore medio che viene insegnato agli impiegati nella scuola che hai visto sopra. È una delle cose che imparano subito, gli entra dentro e diventa parte della loro quotidianità, la fanno senza neanche accorgersene, come quando premi la frizione mentre guidi. Una volta che hai imparato lo fai automaticamente, mica ci pensi, no?
E loro automaticamente mettono un errore di mezzo grado di inclinazione ogni volta che fanno una fotocopia. E poi non partono mai dalla copia che gli mandiamo noi, ma sempre da una copia già fatta da loro, quindi alla decima “fotocopia di fotocopia” ti trovi già con un bel modulo inclinato di 5 gradi.
In più la fotocopia di fotocopia ovviamente sbiadisce i caratteri, che da puri e netti come li vedi adesso diventano delle macchie di inchiostro o dei puntini tipo stampante ad aghi difettosa, incomprensibile.”
Ascoltavo il suo racconto ad occhi sbarrati, quando chiesi:
“Ma scusi, non sarebbe più semplice spedire il file originale a ogni PA in modo che poi loro stampino a partire da quello? Non ci sarebbero inclinazioni e le scritte si leggerebbero senza fatica” chiesi tutto d’un fiato.
“Forse sì, ma così sarebbe molto più facile falsificare i moduli”, rispose il vecchio con l’aria di chi la sa lunga.
“Falsificare i moduli?”
“Certo, se ognuno sapesse come sono fatti in origine, potrebbe cercare di crearne uno perfetto come quello originale e usarlo per i suoi scopi”.
Faticavo a capire. Provai ad obiettare:
“Ma scusi, è molto più semplice falsificare un fogliaccio fotocopiato decine di volte, storto, con delle scritte non intelleggibili, che non un foglio immacolato e perfetto. E poi mi ha detto che chi riceve i moduli non vede mai gli originali, quindi non è in grado di capire se quello che ha davanti è un falso. Tutto quello che dice non ha senso”
Il vecchio spalancò gli occhi e vidi un lampo di paura attraversargli le pupille. Fece per obiettare ma poi si limitò a dire: “È così che funziona”. Dove avevo già sentito questa risposta?
Decisi di lasciar perdere e tornai a guardare i moduli. Vidi che su ogni targhetta, accanto al nome del modulo, c’era un numero, una sorta di matricola. Chiesi cosa fosse.
“È il proprotocollo”, rispose.
“Il protocollo, vorrà dire”, tentai di correggerlo.
“No, è il proprotocollo. È il numero di protocollo dei protocolli. Il proprotocollo” rispose sicuro, poi proseguì “identifica univocamente ogni singolo modulo e ogni singola versione esistente”
“Davvero?” chiesi sbalordito.
“Sicuro.”
Eppure io questi numeri non li avevo mai visti sui moduli PA che avevo compilato nella mia vita.
Davanti a me avevo il modulo per la richiesta di patente nautica entro le 15 miglia. La targhetta riportava la matricola “LIC3287/N/ENT”. Sbirciai sul foglio, in cerca del medesimo riferimento, ma non lo trovai. Feci lo stesso tentativo con qualche altro modulo, ma senza fortuna. Mi decisi a chiedere:
“Ma scusi, perché i proprotocolli non sono riportati sui moduli corrispondenti?”
Il vecchio spalancò la bocca in un sorriso.
“Una geniale intuizione del nostro fondatore e primo Presidente, l’emerito Cavaliere del Lavoro Alfonso Squartapasma.”
“Non riesco a capire la genialità della scelta”, risposi io.
“Ma su, ragazzo mio, pensaci un momento! Prova a figurarti una persona che deve chiedere informazioni su un modulo!”
E così provai a immaginarmi la scena.

Immaginai una signora che deve compilare il modulo per il rinnovo dei permessi straordinari del lavoro per handicap, indecisa su cosa rispondere a una domanda, che chiama il call center dell’ente preposto:
“BuongiornoINPSsonoMarianna” risponde l’impiegata tutto d’un fiato.
“Buongiorno Marianna, devo compilare la Domanda annuale di permessi ma ho un du…”
“Quale?” chiede sbrigativa Marianna.
“Come quale? Perché, ce n’è più di una?”
“Certo signora, c’è quella per i permessi dal lavoro dipendente, quelli per la pubblica amministrazione, quella per le regioni a statuto speciale, poi dipende se lei hai già fatto domanda oppure no, perché se è un rinnovo allora è diverso. Il suo è un rinnovo?”
“Sì!” risponde la signora dall’altra parte, frastornata dall’esistenza di tutte quelle varianti, e contenta di poter rispondere positivamente ad una domanda che possa aiutare Marianna a darle una mano.
“Sì, è un rinnovo, sono tanti anni che faccio questa pratica, ma questo modulo è diverso dal solito.”
“Sì, signora, perché li hanno cambiati un paio di mesi fa”
“Ah, va bene, allora posso chiederle quello che non ho capito?”
“No signora, io mica ho capito quale modello sta guardando”.
“Ma le ho detto che è un rinnovo”
“Sì, ma la prima volta che ha fatto la domanda di invalidità, quando è stato? Prima o dopo il 2002?”
A quella domanda, molto probabilmente, la signora sa rispondere con prontezza. La prima domanda di invalidità non si scorda mai. Ma ovviamente le insidie non sono finite, perché…
“Era proprio nel 2002.”
“Che mese?”
Già, che mese? Questo era più difficile. La diagnosi defintiva l’aveva avuta nel 2001, a giugno, ma ci aveva messo più di un anno prima di trovare il coraggio di farsi dichiarare invalida, e quindi lo aveva fatto nel 2002. Ma che mese era? Aveva già finito il primo ciclo di terapie? Aveva già iniziato il secondo?
“Mi sembra… mi sembra fosse giugno” risponde la signora titubante.
“Le sembra?”
“Sì, guardi, non ricordo con esattezza, sa, parliamo di più di dieci anni fa…”
“Ah signo’, e se non se lo ricorda lei, che me lo devo ricorda’ io? Faccia uno sforzo, sennò vordi’ che non gliene frega tanto de ’sti permessi…”
La signora, frastornata e umiliata, si sente avvampare e decide di rischiare.
“Era giugno” risponde intontita ma ferma.
“Allora signo’, facciamo che era giugno, allora lei dovrebbe avere il modulo che in alto a destra ha l’indicazione dell’ente che ha emesso…”

“Oh, vedo che te la sei figurata bene la scena!” esclamò il vecchio sorridente.
Lo guardai interrogativo. Avevo raccontato la scena ad alta voce, o mi aveva letto nel pensiero (di nuovo)?
“Allora hai capito adesso?”, chiese.
“Veramente… no”.
“Ragazzo mio, la PA complica le cose apposta. Tu credi che l’ufficio complicazione affari semplici sia una barzelletta per prendere in giro qualche sacca di inefficienza, ma non è così, è tutto studiato fin nei minimi dettagli. Rendere difficile la richiesta di un servizio assistenziale può scoraggiare diverse persone, e in questo modo lo stato può vantarsi di offrire assistenza alle persone in difficoltà riducendo il numero effettivo degli aiuti erogati. Capisci l’astuzia?” chiese furbo, cercando complicità.
Spalancai la bocca senza riuscire a dire nulla.
“Certo, c’è pure da dire che l’esimio Presidente Squartapasma, quando ebbe l’intuizione, era anche presidente della più grande compagnia dei telefoni del Paese” aggiunse il vecchio.
“E quindi?”
“E quindi, in quel periodo si iniziarono a creare i servizi di assistenza ai cittadini via telefono, i call center come quello che ti sei immaginato tu un attimo fa, e c’era da fare i soldi.”
“Ma come, scusi? I call center della PA di solito sono gratuiti” obiettai.
Rise.
“Certo, sono gratuiti per chi chiama. Ma il servizio non è certo a costo zero. E questo costo qualcuno lo sostiene, e qualcun altro lo deve remunerare. Un tot ogni minuto. Più minuti gli utenti passano al telefono, più il servizio costa, più chi fornisce il servizio deve essere remunerato. E così un modulo complicato fa passare un sacco di tempo al telefono al cittadino che ha bisogno di un servizio, ma il modulo è così complicato che spesso il cittadino rinuncia. L’ente in questo modo ha risparmiato i soldi che avrebbe dovuto erogare al cittadino, e con quel risparmio può pagare il servizio telefonico della compagnia dei telefoni che gestisce il call center. Il sistema funziona.”
“Ma…” balbettai ancora una volta “ma… sta dicendo sul serio?”
“Ragazzo mio, ma tu vedi un altro motivo plausibile per cui nel 2014 non possa essere messo un cazzo di numero identificativo su un modulo della PA?” chiese urlando il vecchio, con uno sguardo ora cattivo.
Poi la sua faccia lentamente si trasfigurò, e i suoi occhi increspati dalla rabbia si distesero, la bocca si aprì lentamente, prima in un sorriso, poi in una risata bassa che piano piano salì di intesità, fino a diventare assordante:
“Ah! Ah! Ah! Ah! Ah! Ah! La PA ragazzo! La PA!” urlava il vecchio “Ah! Ah! Ah! Ah! Ah! Ah! La PA ragazzo! La PA!”
“La PA! La PA! La PA!”
Iniziai a indietreggiare spaventato, poi decisi di voltarmi e iniziare a correre, per cercare la porta da cui ero entrato, ma intorno a me non vedevo altro che scaffali e moduli, scaffali e moduli. Alle mie spalle il vecchio continuava a urlare: “La PA ragazzo! La PA! La PA!”
Corsi a più non posso fino a che non inciampai nei miei stessi piedi, caddi in ginocchio, ero madido di sudore, perso tra gli scaffali, senza sapere dove scappare. Alzai la testa in alto, chiusi gli occhi e gridai con tutta la forza che avevo: “Aaaaaaaaaaaah!”

Mi svegliai e mi sollevai di scatto a sedere sul letto, urlando. Sentii la mia voce che strillava e mi fermai di botto. Ansimavo. Nell’oscurità, davanti ai miei occhi, passavano di nuovo le immagini che avevo appena visto. Il palazzo strambo, il vecchio, i corridoi, i moduli. Piano piano cercai di tornare a un ritmo di respiro regolare. Ci riuscii.
Un sogno, pensai. Era solo un sogno. Un incubo. L’incubo era finito.
O forse, ora che ero sveglio, l’incubo era appena cominciato.

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Deportati a casa propria

È come quando pensi alle malattie, alla povertà, alle cose brutte: le vedi con distacco, finché non ti capitano, finché non ti colpiscono direttamente. Devi per forza guardarle con distacco, per esorcizzarle e per non morire d’ansia.

Tutti i giorni questo paese ci offre un indecente spettacolo di corruzione e furfanterie, perpretrate a qualsiasi livello, senza vergogna e senza limiti: finanziamenti pubblici ai partiti che vengono usati per costruire ville o pagare prostitute, ciechi che ci vedono benissimo, appalti assegnati grazie a mazzette.
E tutti i giorni mi viene da vomitare, e di pensare che in quanto a criminalità istituzionalizzata siamo ormai ai livelli della Russia.
E tutti i giorni chiudo il giornale con il cuore gonfio di rabbia, un senso di impotenza e la voglia di non sentire più niente. Leggo queste notizie con il distacco di cui parlavo prima.

Eppure questa storia dell’ATAC mi ha colpito più delle altre. Forse perché è proprio di Roma. Forse perché è proprio di un servizio che tutti i romani, me compreso, usano.

Mentre leggevo di come l’ATAC ha organizzato una truffa per finanziare i politici, non potevo fare a meno di provare un senso di violazione in prima persona, come quando ti rubano la macchina.
Ho pensato a tutte le volte che ho comprato un biglietto: quanti dei miei soldi saranno andati direttamente in mano a qualche laido politico senza passare dal via, mentre io, dopo aver timbrato il pezzo di carta, mi incollavo il passeggino per scendere le scale, che spesso non sono neanche mobili?
Ho pensato al montascale della stazione di Anagnina, tardiva espressione di civilità e sensibilità verso gli handicappati, che da un anno ha un cartello appiccicato sopra, con una scritta con il pennarello: “In attesa di collaudo”.
Ho pensato alle persone schiacciate come sardine, costrette a usufruire di un servizio di qualità scadente, in una capitale europea.
Ho pensato a tutta la pioggia presa da tutte le persone in attesa di un autobus che non arriva mai, e quando arriva è stracolmo; alle liti che sono costrette a intraprendere per poter salire, perché non possono arrivare ancora più tardi.
Ho pensato ai turisti che scendono a Ottaviano per andare a San Pietro, con le valige enormi, e con un senso di smarrimento cercano un ascensore o delle scale mobili, e alla vergogna che provo a dirgli che, no, non ci sono scale mobili nella fermata della metropolitana a cui bisogna scendere per andare nella chiesa più importante del Mondo.
Ho pensato agli autisti costretti a lavorare sugli autobus senza l’aria condizionata, e a quelli che riparano i guasti da soli con pezzi di ricambio di fortuna, per portare a termine la corsa.

Ho pensato che, poco più di un anno fa, l’ATAC ha aumentato il biglietto del 50%.
Da 1 euro a 1,50 euro.

I meccanismi di falsificazione dei biglietti andavano a gonfie vele, uscivano fuori un sacco di soldi, ma probabilmente non erano sufficienti per placare l’avidità, e poi c’era da pagare gli appalti che venivano assegnati senza gara, e con valori 5 o 6 superiori ai prezzi di mercato.
E allora, aumentare il prezzo dei biglietti.
E, senza il minimo pudore, anche un’idiota campagna di sensibilizzazione contro chi non paga il biglietto, interpretata dai Cesaroni, perché all’ATAC pensano che se non gliele dicono quattro cazzari in romano, i romani le cose non le capiscono.
All’epoca mi aveva solo fatto incazzare che buttassero soldi per dire “Pagate il biglietto” invece che per collaudare quel benedetto montascale, ma adesso sono veramente senza parole al pensiero che quello fosse un messaggio del tipo “E comprate ‘sti biglietti che mi devo fare la villa”.

Sono anni che mi chiedo per quale motivo non fanno come a Londra, in cui esiste una tessera prepagata in cui carichi un tot di biglietti, e la usi a scalare, come si fa con l’abbonamento a Roma, ma per singoli viaggi. Niente spreco di carta, niente sbattimento con le monetine e le macchinette.
Davvero non riuscivo a capacitarmene. L’altro ieri dicevo a Serena che lo avevo finalmente scoperto, e che il motivo era che i controllori non avevano le macchinette per controllare neanche gli abbonamenti annuali (!)
Ma non era quello il motivo. Adesso è chiaro quale fosse.

In tutti i paesi esistono la corruzione, la disonestà, la furberia. Tutti. In tutti i paesi i politici e la classe dirigente fanno i loro interessi, mentre si occupano della cosa pubblica.
Ma qui, a Roma, in Italia, c’è un totale disinteresse verso la società: la corruzione e la disonestà non sono diventati accessori della carica pubblica, ma l’unico fine.

La nostra dignità viene talmente calpestata che non meritiamo neanche che un senatore condannato in cassazione si dimetta da solo, o che lo faccia un ministro della Giustizia che ha fatto telefonate per aiutare un carcerato.

Nessuna vergona, nessun pudore: un disprezzo della fatica e dei sacrifici delle persone, della vita e della dignità umana, che mi sento di accomunare a quella dei nazisti. Che differenza c’è tra mandare a morire le persone in una camera a gas, o lasciarle vivere quel tanto che basta per poterle sfruttare?

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Lavorare per vivere, non vivere per lavorare

Spesso leggo di persone che affermano, con fierezza ed orgoglio, che loro non si fermano neanche ad Agosto.
Lo fanno con un senso di superiorità, quasi che prendersi una pausa, fare delle ferie, andare in vacanza, sia qualcosa di puerile, inutile. Una debolezza.
Presi dal mito della produttività, o dalla necessità di fare il più possibile per inseguire il proprio sogno di impresa o di carriera, si sentono superiori perché non si fermano mai.

Un po’ ero anche io così prima, ma in realtà non era perché mi sentivo superiore: era una sorta di perversa volontà di dimostrare che fare quello che facevo era davvero duro.
Quasi che lavorare dieci o dodici ore al giorno tutto l’anno non fosse già sufficiente a dimostrare quanto sia dura fare impresa.
E c’era anche la sensazione che stessi rubando qualcosa a qualcuno: se non stavo facendo niente per i miei clienti, mi sembrava che stessi facendo qualcosa di male.

Ora cerco di vedere le cose diversamente.
Al di là di professionalità e competenza nel mio lavoro, dedizione e attenzione ai miei clienti, non devo dimostrare nulla a nessuno.

Se voglio andare in ferie tre settimane, organizzo le cose per fare in modo che non ci siano contraccolpi nelle attività che dipendono da me, e me ne vado in ferie.
E se non ci riesco per qualche motivo, non sto lì a piagnucolare, né a menarla con il celodurismo del lavoratore indefesso.

Quelli che invece lo fanno, un po’ mi fanno compassione. Mi pare che non si rendano conto di ciò che stanno perdendo. Lavorare può essere bello e appagante, avere la fortuna di fare un lavoro che piace è fantastico, ma io voglio fare anche altro.
Io voglio passare giornate in montagna a guardare le nuvole; voglio giocare con i miei bambini; voglio fare passeggiate con la mia amata; voglio visitare posti nuovi, conoscere nuove culture, leggere romanzi, parlare con le persone, scrivere storie.

Vero che, come dice Confucio, “trova un lavoro che ti piace, e non dovrai mai lavorare un giorno in vita tua”, ma alla fine sappiamo tutti che non è così: anche il lavoratore più felice del mondo ha voglia di fare altro ogni tanto.
Per non parlare del fatto che spesso oziare aiuta non solo a ricaricare le pile, ma anche ad avere ottime idee.

E allora perché questa necessità di dimostrare al modo che “non mi fermo neanche ad agosto?”

Ognuno vive la vita a modo suo, ma secondo me, per quanto bello e appagante, si lavora per vivere, non si vive per lavorare.

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Romeo e Giulietta al Globe Theatre

Sabato scorso siamo stati a vedere Romeo e Giulietta al Globe Theatre, con regia di Gigi Proietti.

Lo spettacolo è stato veramente bello: non solo coinvolgente (difficile che Romeo e Giulietta possa non esserlo) ma anche ben orchestrato, con tocchi di modernità che non ne hanno stravolto l’essenza, e anzi l’hanno arricchito.

Gli attori erano tutti di alto livello, ma una nota particolare va a Mercuzio, davvero bravo.

Rispetto alla messa in scena, non mi è piaciuta la scelta di utilizzare un’amplificazione con i vari microfoni: è una cosa che a teatro non mi piace mai (ricordo sempre De Gregori che canta: “Per questa voce che dovrebbe arrivare/fino all’ultima fila”) ma in teatri più grandi capisco la necessità, però il Globe è piccolo, e secondo me se ne poteva fare a meno.

Già, il Globe. Il teatro è bello, crea un’atmosfera diversa da quella di qualsiasi altro teatro. Mi ha colpito particolarmente l’odore del legno, vivo e presente, quasi inebriante.
E dopo un po’, anche in una calda sera estiva come quella di ieri, la temperatura scende un po’ e arriva un filo d’aria, nonostante la struttura non sia stata pensata affatto per essere fresca (del resto l’Inghilterra elisabettiana non aveva certo particolari necessità di refrigerio).

Ma i posti a sedere erano veramente un supplizio. Abbiamo preso i biglietti all’ultimo e quindi sapevamo che non avremmo avuto una visuale buona (terzo livello, laterale) ma questo si sarebbe tollerato senza problemi, tanto era bello lo spettacolo.

Il problema è che le sedute sono davvero fatte male: sedili più piccoli di qualsiasi deretano medio, con conseguente gamba che sporge in avanti e, chicca per la prima fila, pavimento più in basso, o meglio, sedili più in alto, per cercare di alzare la veduta sopra la balaustra, e senza un minimo appoggio per i piedi, che restavano quindi a penzoloni.

Morale: l’ho visto quasi tutto in piedi, tanto valeva prendere un posto nel parterre per quanto siamo stati scomodi.
Al termine dello spettacolo abbiamo provato altri posti al terzo anello, ed erano tutti piuttosto scomodi, non so se negli altri livelli la questione migliora.

Però mi domando: perché qualcuno si può impegnare a rendere qualcosa così scomoda? Non era una mia impressione, metà del terzo livello si agitava sulle sedie o stava in piedi.

Conserverò un bellissimo ricordo di questo spettacolo, ma non so se tornerò in quel teatro.

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