Matteo vuole fare la pace

Accosto la macchina al marciapiede e scendiamo lentamente. Dopo un giro completo nei luoghi delle mie estati da adolescente, arriviamo finalmente davanti alla spiaggia. È un tiepido pomeriggio di inizio maggio, lo stabilimento balneare in cui ho passato tante estati è ancora chiuso, lo indico comunque ai miei bambini, destinatari curiosi di questo giro turistico della memoria. Vediamo che lo stabilimento accanto, invece, è aperto: ha un bar, tavolini e divanetti: Serena e io potremo bere qualcosa e i bambini potranno mettere i piedi nella sabbia e magari sgambettare anche in mezzo all’acqua.
Mentre scendiamo le scale mi accorgo che ci sono persone che hanno persino fatto il bagno, ma noi siamo arrivati qui per caso e non siamo preparati, anche se i bambini ci provano lo stesso: “Peccato non avere il costume, avremmo potuto fare il bagno!”, dice Andrea, sperando, sotto sotto, in una soluzione tirata fuori dal nostro cilindro.
“E già, purtroppo niente bagno, ma probabilmente potete divertirvi lo stesso no?”, rispondo io.
“Ma possiamo andare nell’acqua a bagnarci le mani?”, chiede speranzoso Marco.
“Certo!”, rispondo, e mentre lo faccio mi accorgo che è arrivato davanti a me un bambino piangente. È più alto di Marco, deve avere 7 o 8 anni, ha lo sguardo basso, un po’ di mocciolo, è pieno di sabbia sul petto, sulle braccia e sul costume e piange chiedendo “Dov’è papà?”
Alzo subito lo sguardo intorno a me immaginando di trovare il papà a qualche metro di distanza, che magari si è spostato verso il bar mentre il bambino giocava, ma non vedo nessuno.
“E dov’è mamma?”, chiede ancora il bambino, con lo sguardo basso e la testa un po’ di traverso.
“Non li trovi più, tesoro?” gli chiedo abbassandomi un po’ verso di lui.
“No, non lo so dov’è papà”, risponde lui.
“Stai tranquillo, sarà qui intorno. È la mamma sai dov’è, invece?”
“È vicino al mare, mi puoi accompagnare da lei?” e mentre mi rivolge questa domanda in tono di supplica, mi prende la mano, sempre guardando verso il basso.
“Certo, tesoro, ti accompagno”, rispondo, e poi mi volto verso Serena che ha seguito la scena lì a due passi da me, in cerca di un cenno d’intesa per dirle che mi allontano per aiutare il bambino. In realtà, in quel momento, mi preoccupo più di Andrea e Marco, di cosa possono immaginare vedendomi andare via mano nella mano con un bambino appena conosciuto, ma è un pensiero che dura una frazione di secondo, perché in realtà so che non vedranno niente di strano nel fatto che il loro papà aiuta un bambino in difficoltà. E poi il bambino mi tira leggermente la mano per andare in direzione della riva, e così mi incammino per andare a cercare la mamma.
“Com’è vestita la tua mamma?”
“Ha una maglietta bianca”, risponde, sempre con lo sguardo verso il basso e piangendo.
“Allora la vedo, è lì nell’acqua”
“La mamma è arrabbiata, le chiedi se possiamo fare pace?”, mi chiede supplicante.
Resto interdetto, pensando a quanto sia strana questa richiesta. Perché non può chiedergli direttamente lui di fare pace? Quanto può essere arrabbiata una mamma con il proprio bambino di sette, otto anni, da costringerlo a chiedere a qualcun altro di intercedere per avere il suo perdono? Anche questi pensieri passano in un lampo nella mia mente, ma non mi faccio cogliere impreparato e gli rispondo: “Certo, tesoro, che glielo chiedo. Vedrai che farete pace subito”.
“Davvero glielo dici?”, mi chiede ancora singhiozzante, ruotando la testa nella mia direzione, ma sempre con lo sguardo basso. C’è qualcosa di strano nel suo muovere la testa, non capisco se lo sguardo è basso perché sta piangendo e prova vergogna per il pianto, o per quello che ha fatto, oppure c’è qualcos’altro che non va. Per un momento penso che possa essere cieco, ma si muove con troppa sicurezza rispetto al consueto lento incedere delle persone non vedenti.
Mentre ci avviciniamo alla riva, continua a singhiozzare e a pregarmi di chiedere alla mamma di fare la pace, perché è arrabbiata.
Continuo a rassicurarlo, e nel frattempo cerco di incrociare lo sguardo della madre che si trova dentro l’acqua, a uno o due metri dalla riva, e la immagino venirmi incontro non appena vedrà suo figlio che tiene per mano uno sconosciuto, immaginando che si sia perso e abbia chiesto aiuto. Gli sguardi non si incrociano, e mentre continuo a camminare verso la riva per riconsegnare il figlio alla donna, cominciano a venirmi dubbi sul fatto che quella donna con la maglietta bianca, l’unica in una spiaggia che conterà in tutto una ventina di persone, sia veramente la donna che sto cercando. Del resto, quale madre non guarderebbe ogni minuto in giro per tenere sott’occhio il figlio su una spiaggia? Quella donna invece continua a camminare avanti e indietro nell’acqua bassa, con la testa china, come in cerca di qualcosa.
Cerco di fare un cenno alla donna per chiedere “È suo questo bambino?”, ma la frase mi muore in gola perché mi suona strana, come se stessi parlando di un oggetto che qualcuno ha dimenticato in un ristorante.
Mentre penso a come riformularla, mi si avvicinano due donne che hanno capito che sto cercando di parlare con la signora con la maglietta bianca, e io domando loro: “È con voi questo bambino?”
Una delle due mi risponde: “No, non è con noi, ci siamo conosciuti qui in spiaggia, la mamma è quella signora incinta con la maglietta bianca”, e indica la donna che stavo cercando di contattare. “Il bambino ha perso gli occhiali in acqua e lei li sta cercando”, mi spiega la signora con un’aria triste e contrita. “Gli servono gli occhiali, al bambino”.
Comincio a intuire la situazione: il bambino probabilmente è ipovedente, e gli occhiali gli servono evidentemente per ridurre il problema.
Le donne guardano ora me, ora il bambino, un po’ tristi e un po’ preoccupate,
Il bambino, la sua mano stretta ancora nella mia, continua a piangere e singhiozzare, e mi chiede ancora: “Mi farai fare pace con la mamma?”
“Certo tesoro, adesso andiamo da mamma e vedrai che farete la pace”, rispondo con tono rassicurante, pensando però dentro di me a come può un bambino ipovedente aver perso gli occhiali in acqua: fosse stato il mio, quegli occhiali, così importanti per lui, glieli avrei assicurati in modo che non potessero muoversi di un millimetro neanche sotto un’onda californiana, e invece i suoi sono andati persi in un mare che è praticamente una tavola piatta. Ma non so nulla di lui, della mamma, di questi occhiali e di cosa è successo, quindi mi tengo le mie sparate presuntuose per me e sento il bambino che mi chiede: “Mi puoi portare da nonna? È lì sul ponte”, e indica un punto imprecisato della spiaggia accanto, stendendo il braccio e puntando il dito, senza però alzare lo sguardo.
Chiedo alle due donne: “Il ponte? Che ponte? Sapete dove sta la nonna?”
“No, ha detto il monte, vive sul monte”
Capisco quindi che, qualunque monte sia, non posso certo raggiungerlo con due passi, e quindi mi chino verso di lui e gli dico: “Non posso portarti da nonna, è lontana, ma adesso andiamo da mamma”
“Ma mi farai fare pace con lei?”, chiede ancora una volta.
“Certo, stai tranquillo, sono certo che farete la pace”.
Mi accorgo che sta tremando in maniera vistosa, non capisco se è per il nervosismo o per il freddo, ma poi guardo sulle braccia, vedo la pelle d’oca e gli chiedo: “Ce l’hai una maglietta da qualche parte?”
Una delle due donne risponde: “Sì, ce l’ha sul lettino”, fa un paio di passi per andare a prenderla e poi me la porge. Mi chino verso di lui, l’aiuto a indossarla e cerco di scaldargli un po’ le braccia, e gli chiedo se va meglio. Risponde di sì, sempre singhiozzando.
Mentre mi rialzo mi accorgo che finalmente la madre è giunta fino a noi.
“Niente, non li trovo, adesso devo sentire il padre, ha detto che se non li trovavo ne portava degli altri”, dice alle due donne.
Una delle donne risponde: “Noi abbiamo chiesto ai bagnini di fare attenzione se vedono qualcosa, magari anche domani, e di lasciarli al bar se li trovano”.
La donna si volta verso di me, e io la guardo. Ha un viso strano, squadrato, non bello, il volto teso, ma quello che mi stupisce di più è lo sguardo: mi guarda con occhi assenti, quasi in trance, e poi rivolge lo stesso sguardo assente al bambino, che ancora mi tiene per mano.
“Mamma adesso è qui”, dico al bambino per tranquillizzarlo.
“Le hai detto di fare pace?”, chiede ancora singhiozzando e quasi urlando. E’ il suo unico pensiero. Non si preoccupa dei suoi occhiali, non si preoccupa di non riuscire a vedere quasi nulla, si preoccupa solo di fare pace con la mamma.
Mi rivolgo alla mamma e le dico: “Signora, è preoccupato perché sa che lei è arrabbiata, e vuole fare pace.”
La donna guarda il bambino e non dice nulla.
Il bambino, sempre singhiozzante e con lo sguardo a terra, insiste, stringendomi la mano: “Lei chiedi di fare pace?”
“Sì, tesoro, glielo sto chiedendo”, e poi ripeto alla madre: “Signora, il bambino è preoccupato perché lei è arrabbiata, vuole fare pace”.
E lei, sempre uno sguardo assente negli occhi, guarda fisso verso il bambino, e dice con voce lenta, triste e rassegnata: “Lui adesso non mi può vedere”.
Capisco la difficoltà del momento, immagino la difficoltà della vita di queste persone, ma non riesco ad accettare che una madre resti impassibile davanti a un figlio che supplica perdono, per qualcosa di cui probabilmente non ha nemmeno colpa. Trattengo la rabbia e rispondo: “Ho capito, signora, non la può vedere, ma la può sentire. Gli può dare la mano?” chiedo con tono fermo e forse anche di rimprovero, tendendo verso di lei la mano del bambino che fino a un momento prima stringevo nella mia.
La donna si scuote dal suo torpore e finalmente allunga la sua mano, che vedo umida, verso quella del figlio, che continua a piangere, e gliela stringe. Si incamminano verso i lettini dove hanno le loro cose, e io li seguo a breve distanza per ricongiungermi con Serena e i bambini.
Mentre cammino guardo la mamma che chiede al bambino: “E il telefono dove l’hai messo?” e il bambino corre avanti e indietro tra i lettini dicendo “Ecco, lo sto cercando, dammi un minuto che lo trovo”.
Mi domando quanto e cosa riesce a vedere e distinguere, vedo come cerca di darsi da fare per compiacere la mamma, per trovare il telefono, e mi allontano dalla scena un po’ turbato, scosso, pensieroso.
Serena ha trovato posto su una poltroncina sotto al gazebo del bar: davanti alla poltroncina c’è un tavolinetto da caffè, e all’altro capo del tavolo un’altra poltroncina. Di fronte al lato lungo del tavolino c’è un divanetto a due posti, dove mi siedo stanco e pensieroso. Il divanetto è posizionato proprio di fronte al mare, quindi posso vedere Marco e Andrea che sono già arrivati sulla riva per giocare.
Serena non fa in tempo a chiedermi cosa è successo che il bambino torna di nuovo verso di me piangendo disperato. Mi alzo, gli vado incontro, e gli chiedo ancora: “Che c’è tesoro mio?”
“Mamma è ancora arrabbiata, adesso deve chiamare papà e cercare gli occhiali”
“Tesoro, mamma è preoccupata perché gli occhiali per te sono importanti, e adesso non sa bene come fare, ma stai tranquillo, farete pace”
Continua a piangere, vedo il mocciolo che gli cola, mi faccio passare un fazzoletto da Serena.
“Dai, soffiati il naso e poi stai un po’ qui con noi”. Lo aiuto a soffiarsi il naso, e non appena mi muovo per andare verso un secchio a buttarlo sento che lui si muove dietro di me. Lo fermo dicendogli: “Stai qui, stai tranquillo, vado a buttare questo fazzoletto e torno, e stiamo un po’ insieme”.
Lui continua a muoversi intorno alla poltrona, lo vedo che si agita e fa un passo in una direzione, poi in un’altra, sempre piangendo.
Torno verso di lui, gli metto una mano sulla schiena cerco di tranquillizzarlo con la voce e con delle carezze.
Mi è capitato altre volte di calmare bambini che piangevano, non solo i miei. Ci sono i bambini che piangono per capriccio, quelli che piangono con poca convinzione, quelli che piangono perché tristi. Ogni pianto ha una sua motivazione, una sua dignità. Dire semplicemente “Smetti di piangere” non ha altro effetto che quello di mortificare il bambino, che sta esprimendo un suo disagio, giustificato o meno che sia.
Allora bisogna semplicemente cercare di capire l’origine del pianto, e provare ad agire di conseguenza. Se il pianto è di capriccio, bisogna cercare di distogliere l’attenzione dall’oggetto del capriccio, provando a concentrare il bambino su qualcos’altro, su un oggetto, su una situazione, qualcosa che possa catturare la sua attenzione.
Se il pianto è di quelli con poca convinzione, quelli del “Vorrei e quindi ci provo piangendo un po’” oppure “Andrea mi ha dato un pizzico” allora la cosa che funziona di più è fare lo scemo, qualche faccia buffa, una risata, e in un minuto è tutto dimenticato.
Ma se il pianto è triste, l’unica è cercare di far parlare il bambino, chiedergli perché è triste, e poi parlargli guardandolo negli occhi per cercare di tranquillizzarlo.
Già, negli occhi.
Non ho mai avuto a che fare con bambini ciechi o ipovedenti, quindi non è facile capire come riuscire a calmarlo. Se non può vedermi bene, allora deve sentirmi. E quindi, seduto sul bordo del divanetto, cerco di assumere una posa non preoccupata per riuscire a trasmettere serenità anche alla mia voce, avvicino il bambino a me e, accarezzandolo sulla schiena, gli chiedo: “Come ti chiami?”
“Matteo”
“Bene, Matteo, vuoi sederti un po’ qui con noi e mi racconti qualcosa di te?”
Lui continua ad agitarsi e a piangere, non sa bene cosa fare, e anche io comincio a non essere più sicuro di poter gestire la situazione.
Nel suo continuo agitarsi, si siede sulla poltrona, poi si rialza, poi si risiede.
In un momento la poltrona è già piena di sabbia, e mi domando se quelli del bar faranno noie: per questo per un attimo penso che forse dovremmo spostarci, andare in un posto dove non possa sporcare con tutta quella sabbia che ha addosso, ma è già difficile infondergli un po’ di calma in un patio su un divanetto, figuriamoci in piedi sulla spiaggia o di sbieco su un lettino. Decido di fregarmene della sabbia e penso: “Oh, fanculo, se fanno problemi gli pagherò la tintoria per questo cuscino”.
Matteo finalmente resta seduto per più di qualche secondo, e continua a parlare della mamma arrabbiata.
“Voglio fare pace con la mamma”, continua a dire piangendo disperato.
“Stai tranquillo, la farai” gli ripeto con la voce più rassicurante che riesco a trovare, e mi sistemo sul divano preparandomi a una chiacchierata difficile.
Serena è sulla poltrona accanto a me, io la guardo e le chiedo: “Prendiamo qualcosa?”
“Certo, cosa vuoi?”
“Un’acqua tonica, e prendiamo qualcosa anche per Matteo”
Ci guardiamo, entrambi pensiamo di comprargli un gelato, delle patatine o una coca cola, ma ci basta uno sguardo tra di noi per capire che non è il caso di comprare qualcosa a Matteo senza prima aver consultato la mamma, e la mamma è troppo lontana, è tornata nell’acqua e continua a camminare avanti e indietro, questa volta con il cellulare all’orecchio.
Diciamo contemporaneamente “No, no” e decidiamo di prendere semplicemente dell’acqua.
“La vuoi dell’acqua, Matteo?”, chiedo.
“Sì”, risponde, sempre piangendo.
Mentre Serena si avvia verso il bar, io cerco ancora di calmarlo, ripetendogli che la mamma è solo preoccupata, e che presto di sicuro faranno pace.
Arriva Serena, dietro di lei un cameriere con un vassoio, sopra ci sono due acque toniche in bicchieri di vetro, una bottiglietta d’acqua liscia e dei bicchieri di plastica.
Apro l’acqua, è ghiacciata, ne verso tre dita in un bicchiere di plastica e poi lo porgo a Matteo: “Tieni, Matteo, bevi, ma ti prego, fallo lentamente perché l’acqua è ghiacciata”.
Matteo ubbidisce e beve a piccoli sorsi lenti, interrotti dai singhiozzi del pianto. Finita l’acqua, poggia il bicchiere sul tavolino, gli chiedo se ne vuole ancora. Lui risponde di sì e allunga le mani verso il bicchiere di vetro con la mia acqua tonica.
“No, Matteo, quello è il mio bicchiere. Questo è il tuo” e gli porgo il bicchiere di plastica che aveva appena posato, e che stava proprio accanto al mio.
Lui guarda ancora sul tavolo e vede gli altri bicchieri di plastica impilati.
“E quelli di chi sono?”
“Sono per gli altri, per chi ha sete”
“Ma quanti sono?”
Vedo che gli occhi sono indirizzati verso i bicchieri, ma sono sempre mezzi chiusi, non riesce a distinguere bene.
“Sono sei, bastano per tutti, non ti preoccupare. Ma tu hai già questo”, rispondo, e gli porgo il bicchiere riempito con altre tre dita d’acqua.
Beve a piccoli sorsi anche questo, e tra un sorso e l’altro mi dice di nuovo che la mamma è arrabbiata.
Decido di cambiare strategia, e cerco di rassicurarlo su quello che probabilmente gli sta più a cuore:
“Matteo, lo so, la mamma adesso è arrabbiata con te, ma devi stare tranquillo: anche quando è arrabbiata, la mamma ti vuole bene lo stesso.”
“Davvero?”
Forse ho colpito nel segno.
“Certo, Matteo, ti vuole bene lo stesso”.
Non è una lezione facile da imparare, per un bambino, io l’ho imparata da grande, e proprio negli ultimi mesi abbiamo cercato di farla capire bene a Marco, ma soprattutto ad Andrea, per fargli capire che può sbagliare, che può accadere che faccia qualcosa che fa arrabbiare le persone, ma che le persone gli vogliono bene anche quando sono arrabbiate. Che l’arrabbiatura passa, l’affetto resta. La paura di perdere l’affetto di una persona per un’arrabbiatura può portare un bambino a sentirsi in dovere di non sbagliare mai, e a struggersi oltremodo quando gli capita, inevitabilmente e naturalmente, di sbagliare.
A me l’ha insegnato da poco una cara amica, io sto cercando di insegnarlo ai miei bambini affinché crescano concedendosi di sbagliare.
“Anche io mi arrabbio con i miei bambini, ma gli voglio bene lo stesso”
“E ti arrabbi tanto?”
“Eh, dipende. Certi giorni mi arrabbio tanto e certi giorni non mi arrabbio per niente”
“E certi giorni ti arrabbi solo un po’?”, chiede. I bambini pretendono precisione, non si può passare da tanto a niente senza avere nulla nel mezzo.
“Sì, ogni tanto mi arrabbio un po’”.
“Per esempio quando è che ti arrabbi tanto?”
La domanda mi spiazza. Cerco di trovare un’arrabbiatura che sia paragonabile a quella della madre al momento, una di quelle arrabbiature per le quali devi persino allontanarti da tuo figlio, ma non me ne viene in mente neanche una. Non posso perdere tempo a cercare di ricordare se c’è mai stata, Matteo è lì accanto a me, finalmente sono riuscito a catturare la sua attenzione e devo dargli delle risposte.
“Per esempio, Andrea ogni giorno, quando ci mettiamo a tavola a mangiare, appena si siede si leva le scarpe. Sotto al tavolo! E poi le lascia lì! E noi ci troviamo sempre queste scarpe in mezzo. E io ogni volta gli dico che non lo deve fare, che le deve mettere a posto. E l’altro giorno gli ho detto «Adesso ti stacco i piedi, così non ti servono più le scarpe e il problema si risolve!».
Mi rendo conto che Matteo non può vedere la mia faccia buffa, e quindi mi affretto ad aggiungere: “Naturalmente scherzo, mica gli stacco i piedi, però lui lo sa che mi fa arrabbiare”.
Matteo mi ascolta. Io cambio discorso.
“Matteo, ma lo sai che la tua voce somiglia a quella del mio nipotino?”
“Chi è?”
“Si chiama Simone, e ha una voce molto simile alla tua”.
Sto per dirgli l’età di Simone, quando penso che implicitamente gli direi che ha una voce da bambino più piccolo di quello che è, e quindi mi sto zitto.
Gli occhi sono sempre un po’ bassi davanti a sé. Ha smesso di piangere. Nel frattempo si è avvicinato Andrea per farsi sistemare i pantaloni, e io colgo la palla al balzo.
“Oh, ecco Andrea, adesso lo chiediamo a lui. Andrea, che cosa vi dico sempre, quando ci arrabbiamo con voi, vi vogliamo bene lo stesso o no?” e lui risponde:
“Certo!”
Matteo ascolta e poi chiede: “Chi è lui?”
“È Andrea, uno dei miei figli”.
“Quanti bambini hai?”
“Due. Andrea, che ha 9 anni, e Marco, che ne ha 5”.
“E adesso ne hai tre.”
“E chi sono?”, pensando si riferisca a Simone.
“Andrea, Marco e io”
“No, Matteo, tu sei un mio amico e mi fa piacere parlare con te, ma io non sono tuo papà. Come si chiama il tuo papà?”
Matteo guarda fisso davanti. Io vedo gli occhi muoversi velocemente a destra e sinistra sotto le palpebre, immagino stia pensando. Non posso però indovinare se sta pensando a ciò che gli ho detto o a ciò che gli ho domandato.
Aspetto ancora qualche attimo, poi gli ripeto la domanda: “Come si chiama tuo papà?”
“Sul telefono quando chiama c’è scritto Flavio”
Sbarro gli occhi. Perché un bambino risponde così? Perché non pronuncia semplicemente il nome di suo padre?
Comincio a immaginare che la situazione sia ancora più complicata di quello che sembra. Magari questo Flavio non è il suo vero padre. Eppure la mamma aveva parlato di “suo padre”. Magari questo Flavio è il compagno della madre, e magari ne ha le scatole piene di questo figlio handicappato a cui deve comprare gli occhiali, e fargli fare visite, e stare sempre attento. Cerco di farmi passare dalla testa questi pensieri da film tragici.
“Sabrina lo chiama signor Flavio”
È incredibile. Io ci provo a non pensare, ma le risposte di questo bambino fanno venire i brividi.
“Chi è Sabrina?”
“La tata”
“Ah, ho capito. E dove sta papà adesso?”
“Mi porti da papà? Voglio andare da papà. Mamma è arrabbiata, voglio andare da papà”
“Matteo, tesoro, ma io non so dove sta papà. È a Roma? Vive a Roma? Sta lavorando?”
“Non lo so, voglio andare da papà.”
“Ma voi quando siete venuti qui al mare?”, gli domando.
“Ieri. No, forse oggi.”
“E come siete venuti, con la macchina?”
“Sì, perché, potevamo venire anche con la moto?”
“Certo, qui si può arrivare in un sacco di modi. Con la macchina, con la moto, pensa che c’è chi ci viene anche in barca.”
“E poi?”
“E poi cosa?”
“In che altri modi si può arrivare qui?”
“Ah, allora, abbiamo detto con la macchina, con la moto, con la barca, con l’autobus, con la corriera, che è praticamente come un’autobus, con la bicicletta, con una carrozza, a cavallo, con i pattini…”
“Con l’aereo?”
“Eh, no, con l’aereo no”
“Perché?”
“Perché per far atterrare l’aereo ci vuole un sacco di spazio, ma questo è un paese piccolo, quindi non c’è spazio per far atterrare un aereo”
Pensa ancora un po’ alla mia risposta, e poi mi domanda:
“E poi quando ti arrabbi?”
Ancora con il pensiero dell’arrabbiatura.
“Fammi pensare… ah, sempre a tavola, quando i bambini non stanno seduti per bene. E poi ancora con queste scarpe, le lasciano dappertutto! Se non stanno sotto al tavolo sono davanti al divano. Appena arrivano a casa si levano le scarpe e le lasciano davanti al divano! E allora io mi arrabbio e grido: «Andrea! Marco! Andate a mettere a posto queste scarpe benedette!» ma anche mentre sono arrabbiato e gli dico questo, gli voglio bene lo stesso.”
“Ma la prima volta glielo dici piano?”
Dio mio, questo bambino. Ma quanto spesso lo sgridano, invece di aiutarlo? Quanto spesso sono arrabbiati con lui? Lo so, non dovrei mettermi a giudicare situazioni che non conosco affatto, ma questo bambino sembra ossessionato dalle arrabbiature. Rispondo sinceramente.
“Certo, le prime volte, quando loro non lo sapevano che cosa dovevano fare, gliel’ho detto con calma che era meglio che mettessero le scarpe a posto, ma adesso lo sanno bene, quindi se non lo fanno mi arrabbio subito. Ma gli voglio bene lo stesso”
Nel frattempo arriva Marco al nostro divanetto, per farsi sistemare i pantaloni da Serena.
“Oh, ecco, è arrivato anche Marco, adesso chiediamo anche a lui”
“Chi è Marco?”, chiede Matteo.
“È l’altro mio bambino.”
“Quanti bambini hai?”
Pazientemente, rispondo di nuovo: “Due, Andrea e Marco”.
“E c’è anche Andrea adesso?”
Non riesco proprio a capire cosa e quanto vede.
“No, Andrea è sulla riva, sta giocando con l’acqua”.
Chiedo anche a lui: “Marco, quando noi ci arrabbiamo con voi, vi vogliamo bene lo stesso?”
“Certo”, risponde Marco.
“Visto?”, dico a Matteo.
“E per cosa ti arrabbi con Simone?”
Gulp. Mai arrabbiato con Simone. Sia perché, purtroppo, lo vedo troppo poco, sia perché di solito lascio che siano i genitori ad arrabbiarsi con i propri figli. Ma queste non sono certo risposte che possono soddisfare Matteo, specialmente quella in cui dico che non mi sono mai arrabbiato con Simone. Probabilmente la troverebbe una cosa inconcepibile.
Prendo tempo cercando di inventare un motivo per cui potrei essermi arrabbiato con Simone.
“Dunque, con Simone mi arrabbio quando…” dico ad alta voce. Mi viene in soccorso Marco: “Quando ogni tanto picchia qualcuno”
Simone che picchia qualcuno? Penso dentro di me. Questo sì che è inconcepibile, chissà come è venuto in mente a Marco. Ma ormai è fatta, e quindi dico: “Eh, sì, quando ogni tanto magari dà le spinte a qualcuno, allora mi arrabbio, ma glielo spiego e comunque gli voglio bene lo stesso.”
Vedo che Matteo ha ricominciato a tremare.
Mi giro verso Serena, chiedendole se abbiamo qualcosa con cui coprirlo.
“Posso andare a prendere in macchina il giacchetto di Marco”, risponde, ma io decido di andare verso i lettini di Matteo, immaginando di trovare lì qualcosa. Matteo viene dietro di me. Trovo solo un asciugamano leggero, glielo metto sulle spalle, dopodiché lui inizia a muoversi come un ossesso tra i vari lettini.
Marco è venuto con noi e osserva la scena. Matteo si accorge della sua presenza e chiede: “Chi è lui?”
“È Marco”, rispondo.
“E Andrea dov’è?”
“È a riva, sta giocando con l’acqua.”
“E posso giocare insieme a voi, Marco?”, chiede Matteo.
“Certo, andiamo!”, risponde Marco, e iniziano a correre assieme verso la riva.
Osservo Matteo che, nonostante il suo problema, corre quasi come un bambino con una vista normale. Gli grido: “Matteo, aspetta, lascia l’asciugamano!”
Lui torna indietro, ma invece di venire verso di me prende una traiettoria alla mia sinistra. Con calma lo avviso: “Matteo, sono di qua”. Lui sente la mia voce e gira nettamente alla sua sinistra e viene precisamente davanti a me.
Invece di levarsi l’asciugamano, se lo tiene sulle spalle e si sdraia goffamente su un lettino.
“Adesso puoi restare qui sul lettino a farmi compagnia?”
“No, Matteo, preferisco tornare sul divanetto, se vuoi puoi venire di nuovo con me, ma perché non giochi un po’ con Marco e Andrea?”
Si alza dal lettino e risponde: “Sì, con Marco e Andrea!”, lascia l’asciugamano e va di nuovo verso la riva.
Io lo guardo, cercando di vedere se effettivamente riesce ad arrivare fino alla riva, ma lui dopo qualche passo fa per tornare indietro, poi di nuovo in avanti, poi indietro. Sembra una mosca che cambia continuamente direzione, indecisa sul da farsi. Poi finalmente va verso la riva e si mette a giocare con Marco e Andrea.
Io torno al bar, mi siedo sul divanetto e mi sento triste e soddisfatto. Soddisfatto, perché sono riuscito a far calmare quel bambino che sembrava inconsolabile, e triste, perché non riesco neanche a immaginare le difficoltà sue e della sua famiglia.
Stringo a me Serena, guardando da lontano i nostri bambini giocare con Matteo, riflettendo su quanto siano piccoli i problemi da cui mi lascio affliggere quotidianamente.
Ci accorgiamo che Matteo sta parlando al cellulare, forse finalmente sta parlando con suo padre, sembra contento, continua ad andare avanti e indietro con questo cellulare.
Serena e io non possiamo fare a meno di essere terrorizzati all’idea che quel cellulare possa cadere in acqua, facendo arrabbiare ancora di più la madre. Serena fa addirittura per richiamare Andrea e Marco, in modo che non lo possano colpire inavvertitamente, contribuendo così ad una nuova situazione di tensione, ma io la fermo con un lapidario e sintetico: “No, Sere’, mica possiamo fa’ così” che in realtà vuol dire: “Se questa è così scema da non pensare che un cellulare in mano a un bambino sulla riva del mare può fare una brutta fine, sono cavoli suoi. E se il cellulare cade e prova a dire qualcosa a Matteo, vado a dirgliene quattro”.
Per fortuna il cellulare non cade e Matteo lo riporta alla madre che gli dice che devono andare.
Mi tranquillizzo e mi distraggo per qualche minuto guardando il cellulare, e quando rialzo lo sguardo Matteo e la madre sono sotto al gazebo, diretti verso l’uscita.
La madre non si avvicina neanche a ringraziare, ma io penso solo a Matteo: lo guardo, quella testa sempre un po’ piegata, la camminata un po’ incerta, ma svelta e nervosa, chiede qualcosa alla madre.
Vorrei alzarmi per andare a salutarlo, vorrei andare ad abbracciarlo, vorrei portarlo via con me. Vorrei almeno andare a ricordargli che le persone gli vogliono bene lo stesso. Almeno io gliene voglio. Ma non faccio niente di tutto questo. Lo guardo salire i gradini, sparire dopo l’uscita, e spero che si ricordi di quello che gli ha detto il suo amico. Spero che le mie parole restino dentro di lui, e che lui continui a pensare che la mamma gli vuole bene lo stesso, anche quando è arrabbiata.
Spero che lui continui a pensare che la mamma gli vuole bene lo stesso. Anche se non è vero.

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2 risposte a Matteo vuole fare la pace

  1. Anna scrive:

    Magari gli vuole bene davvero, a modo suo… magari certe cose a lei nessuno glie l’ha insegnate, nemmeno da grande. Magari è solo uno dei tanti bambini sfortunati…

  2. Marco scrive:

    Wow, ci ho messo un sacco per leggere questo articolo ma ne è valsa la pena! Penso che tutti i tuoi pensieri sul volersi bene anche dopo “l’incazzatura” siano giustissimi e li condivido in pieno!
    -Marco Cappiello Palumbo.

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