Dieci nero

Doveva essere più o meno il 20 agosto, più o meno oggi di 10 anni fa.
Ero su, nella casa che sarebbe diventata dei nonni di Serena, a lavorare. Come al solito, come sempre in ogni maledetta estate.
Un cavo del telefono era stato tirato da casa dei genitori di Serena fino a dove stavo io, per consentirmi di collegarmi con un modem 56k.
Picchiavo sui tasti, lavoravo allegramente, quando la porta di casa si aprì e apparì Serena.
Non appena vidi il suo viso tirato, iniziai a tremare.
“Fra, ha chiamato tuo padre, tua mamma si è aggravata, dobbiamo tornare a Roma”.
Il sangue gelato nelle vene, gli occhi sbarrati, la paura, l’ansia. La domanda: “Dimmi la verità, ti prego”.
“No, Francesco, è questa, non c’è altro, ma dobbiamo rientrare”.
I movimenti nervosi, veloci, per raccogliere le mie cose di lavoro. La decisione di Bruno e Annamaria di rientrare con noi. L’attesa che si preparassero tutti i bagagli, nostri, di Bruno e Annamaria, di Andrea. L’interminabile attesa di partire. Il viaggio, io sul sedile di dietro, il volto appoggiato al finestrino, senza dire una parola, in attesa di ciò che sarebbe arrivato di lì a breve, in attesa di arrivare a casa, la speranza di vedere che poi non era così grave, la consapevolezza di ciò che sarebbe invece giunto.
Il viaggio, lungo, interminabile, il tentativo di dormire per non pensare, per placare la paura.
L’arrivo, fare finta di stare bene, sorridere davanti a mamma, cercare la forza.
Le giornate, lunghe, interminabili. Le confabulazioni, le notizie a bassa voce. Mamma che gioca con Andrea, che sorride. Mamma che mangia qualche cucchiaio di gelato, l’unica cosa che riesce a mandare giù. Mamma che spalanca gli occhi orgogliosa mentre le racconto che un cliente importante ha deciso di affidarci un lavoro. Mamma seduta sul divano, come tante volte quando stava bene, che mi racconta un film, l’ultimo film che ha visto, e mi racconta di quanto le è piaciuto. Io che compro quel film, qualche giorno dopo, e non ho mai trovato la forza di vederlo.
Mamma che si alza piano, che cammina strascicando un po’ i piedi, mamma che sistema i capelli posticci, perché è importante presentarsi bene, nonostante tutto. Mamma che tiene in braccio Andrea, lo fa ridere facendo schioccare lentamente le labbra. Io che scatto foto sapendo che sono le uniche che Andrea avrà con Mamma.
Mamma che va a letto presto, mamma che si alza presto, mamma che non sa dove girarsi e come sedersi per i dolori, mamma che non si lamenta mai se non quando proprio non ce la fa più. Mamma che chiede di parlare con il prete, e poi esce dalla stanza con il sorriso.
Le giornate a casa di Mamma, senza sapere cosa accadrà, né quando. Le notti insonni, i tentativi di dormire, i primi incubi. Papà che beve, per ammazzare il dolore che lo strazia, per rendere tutto questo più sopportabile. La telefonata alle cinque di mattina, dall’altra parte mio fratello, unico a dormire a casa dei miei, con voce secca e operativa mi dice: “Allora, Francesco, la situazione è questa…” e io che non ricordo nient’altro dopo quelle parole. Mio fratello che mi dice quanto è grave la situazione, andiamo subito lì. Mettiamo Andrea in macchina che ancora dorme, e andiamo. L’arrivo a casa, io non entro in camera, arriva l’ambulanza, l’infermiere chiede: “Cosa sa la signora” e mia sorella risponde: “Conosce la diagnosi, ma non la prognosi”. Come se non l’avesse capito comunque. Eppure nessuno di noi ne ha mai parlato apertamente con lei, con Mamma. Forse, se ne avessimo parlato, saremmo riusciti a viverla meno tragicamente. Il dolore sarebbe stato identico, ma la consapevolezza forse aiuta a renderlo più vivibile. Così almeno raccontano in qualche film. Bisogna portarla in ospedale, gli infermieri e mio fratello la accompagnano. Mamma, preoccupata della vestaglia e dell’assenza dei capelli posticci, che dice: “Che vergogna, mamma mia, che vergogna”. Le ultime parole di mamma che ho sentito.
In ospedale, l’attesa. Le persone che arrivano per starci vicine, Tante, tantissime, che vogliono bene a mamma e a noi.
L’attesa della fine, le frasi di circostanza, le risate nervose a denti stretti. La suora con il bollettino medico che si aggrava, che dice che non sa dire per quanto ne avrà, potrebbero essere ancora ore, mia sorella che esclama: “Oh madonna, ancora ore!” e la suora che la guarda inorridita, chissà che idiozia avrà pensato.
Io che sto vicino a Serena, io che non arrivo mai più vicino di 20 metri all’ingresso dell’ospedale, io che aspetto solo la fine.
La fine. Mia sorella che mi dice: “E’ finita”. Noi tre, noi quattro che ci abbracciamo, nell’ultimo momento in cui siamo stati uniti. Il pianto, le lacrime, il pianto che non si può fermare, che dura giorni.
Il temporale. La pioggia, tanta, tantissima, da mettere paura. Andrea, la speranza, sulle spalle di un bimbo di due mesi l’incarico di portare di nuovo felicità.
Il giorno dell’addio, io che non so come vestirmi.
La chiesa, grande. Piena. Incredibilmente piena, non so contare quante persone. Amiche e amici di mamma, amici di famiglia, amici miei.
La chiesa, le parole, il prete che piange. Il prete che piange. Mia sorella che legge e la saluta.
La bara, io e mio fratello che la solleviamo. Pesava, dio quanto pesava, e faceva male. Le lacrime, tante che non vedo la strada davanti a me. Le lacrime.
Il carro. Gli amici che mi salutano. Quelli di Roma e quelli venuti dall’estero non appena hanno saputo. Lo stupore di vederli qui, la gratitudine infinita di essermi vicini.
Il carro. Il corteo. Il camposanto. La terra, la buca.
L’addio.

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Una risposta a Dieci nero

  1. lock scrive:

    Vorrei scrivere “bel post”, ma non lo è. È un’esperienza che ho vissuto anch’io e, per quanto assurdo, c’è un momento in cui ti auguri che finisca tutto subito, perché è una cosa troppo devastante.
    Io sono stato lì quando è successo, ho visto una persona che amavo smettere di respirare. Io che ho fatto un corso di primo soccorso e conoscevo la procedura per la rianimazione. Ma sapevo che sarebbe stata inutile, non si può andare contro natura.
    Ma è una cosa che mi è rimasta, forse la più lucida e indelebile di quella maledetta notte: stare lì immobile, trattenermi dall’intervenire e al tempo stesso implorare “respira. Cristo, respira!”.

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