Tutto inizia quando varco la soglia della scuola: un passo prima sono un padre, un marito, un lavoratore, un uomo. Un passo dopo sono un elettore.
Attraverso quella soglia, faccio un saluto ai Carabinieri e mi incammino verso l’aula predisposta. Ad ogni passo sento la responsabilità sempre più grande, e l’illusione di un potere sempre più forte.
Dieci passi.
Non ho mai preso alla leggera questo compito. Sono cosciente del fatto che è uno degli strumenti più potenti che abbiamo, ancora oggi, nonostante tutto. Uno dei tre più forti: il voto, le manifestazioni, le scelte d’acquisto.
Venti passi. Svolto nel corridoio.
Ogni volta sento il peso della responsabilità della mia scelta. Lo sento per me, e lo sento anche per gli altri. Mi preoccupo di fare una scelta che sia giusta anche per chi vive ogni giorno accanto a me, in questo stesso Paese.
Trenta passi. Iniziano le aule, i numeri dei seggi sulle porte.
Guardo le persone, mi domando chi hanno votato, mentalmente li ringrazio per averlo fatto. In un istante mi passano davanti secoli di storia in cui le persone non avevano questa possibilità. Io ce l’ho.
Quaranta passi. I cartelloni delle coalizioni attaccati alla meno peggio sopra i lavoretti dei bambini.
La gente studia i simboli e i nomi, anche se studiare i nomi serve davvero a poco, visto che non possiamo scegliere. E dalla zona del cartellone che guardano, si può capire se sono di destra o di sinistra.
Cinquanta passi. Sono davanti al mio seggio.
Saluto gli scrutatori, porgo la tessera elettorale (che mette in bella mostra se io ho votato o meno a tutte le passate consultazioni) e vengo avvolto dai lenzuoli colorati.
Cabina 4.
Ci sono. Entro dentro. Mi trovo davanti alla scelta. Adesso devo tracciare il segno, fare in modo che sia ben chiaro e che nessuno possa travisare il mio pensiero. Voglio che sia ben evidente chi ho scelto di votare.
Guardo i simboli, e mi domando se c’è ancora qualcuno, tra coloro che andranno in parlamento, che sentono *davvero* la responsabilità che gli sto dando. Tracciando quel segno io sto compiendo uno dei più grandi atti di fiducia che si possano fare.
Questa volta è diversa dalle altre. Le idee confuse, la nausea, la voglia di qualcosa di realmente diverso, non le solite baggianate demagogiche.
Questa volta il peso che sento è dieci volte maggiore. Questa volta non ci stiamo giocando il futuro, stiamo scommettendo il presente, l’immediato.
Piego anche l’ultima scheda, e guardo quel mucchietto all’angolo della piccola mensola. È fatta.
Per la prima volta, da quando voto, sento le lacrime che mi salgono agli occhi.
Altre volte ho votato il male minore, ma questa volta fa più male delle altre.
Avevo giurato che non l’avrei fatto, ma sono dovuto scendere a patti con la realtà.
Ancora una volta, la persona che più di tutte ha portato l’Italia nel baratro, mi ha levato la libertà di scegliere con serenità.
Avrei volentieri scelto una delle novità, quella che, nonostante tutto, mi convinceva di più, ma per sperare che questo Paese regga ancora un po’, è necessario un governo con il più ampio consenso possibile.
Votare un partito piccolo, solo perché è quello in cui mi ritrovo di più, è un lusso che non posso ancora permettermi.
Sento, dall’altra parte della cabina, i miei bambini che chiacchierano con gli scrutatori.
Non posso negarlo, è a loro che penso più di ogni altro, in questi giorni. Forse è per loro che mi sono dilaniato così tanto nella scelta.
Perché loro, un giorno, mi domanderanno: “Papà, ma quando Berlusconi tentò di comprare il voto degli Italiani promettendogli soldi che tra l’altro non aveva, tu che hai fatto per fermarlo?”
Perché, ancora oggi, dopo vent’anni, mi trovo a dover cercare di fermare qualcuno, piuttosto che a mandare avanti qualcuno in cui credo.