Non sono libero

Tutto inizia quando varco la soglia della scuola: un passo prima sono un padre, un marito, un lavoratore, un uomo. Un passo dopo sono un elettore.
Attraverso quella soglia, faccio un saluto ai Carabinieri e mi incammino verso l’aula predisposta. Ad ogni passo sento la responsabilità sempre più grande, e l’illusione di un potere sempre più forte.

Dieci passi.
Non ho mai preso alla leggera questo compito. Sono cosciente del fatto che è uno degli strumenti più potenti che abbiamo, ancora oggi, nonostante tutto. Uno dei tre più forti: il voto, le manifestazioni, le scelte d’acquisto.

Venti passi. Svolto nel corridoio.
Ogni volta sento il peso della responsabilità della mia scelta. Lo sento per me, e lo sento anche per gli altri. Mi preoccupo di fare una scelta che sia giusta anche per chi vive ogni giorno accanto a me, in questo stesso Paese.

Trenta passi. Iniziano le aule, i numeri dei seggi sulle porte.
Guardo le persone, mi domando chi hanno votato, mentalmente li ringrazio per averlo fatto. In un istante mi passano davanti secoli di storia in cui le persone non avevano questa possibilità. Io ce l’ho.

Quaranta passi. I cartelloni delle coalizioni attaccati alla meno peggio sopra i lavoretti dei bambini.
La gente studia i simboli e i nomi, anche se studiare i nomi serve davvero a poco, visto che non possiamo scegliere. E dalla zona del cartellone che guardano, si può capire se sono di destra o di sinistra.

Cinquanta passi. Sono davanti al mio seggio.
Saluto gli scrutatori, porgo la tessera elettorale (che mette in bella mostra se io ho votato o meno a tutte le passate consultazioni) e vengo avvolto dai lenzuoli colorati.

Cabina 4.
Ci sono. Entro dentro. Mi trovo davanti alla scelta. Adesso devo tracciare il segno, fare in modo che sia ben chiaro e che nessuno possa travisare il mio pensiero. Voglio che sia ben evidente chi ho scelto di votare.
Guardo i simboli, e mi domando se c’è ancora qualcuno, tra coloro che andranno in parlamento, che sentono *davvero* la responsabilità che gli sto dando. Tracciando quel segno io sto compiendo uno dei più grandi atti di fiducia che si possano fare.

Questa volta è diversa dalle altre. Le idee confuse, la nausea, la voglia di qualcosa di realmente diverso, non le solite baggianate demagogiche.
Questa volta il peso che sento è dieci volte maggiore. Questa volta non ci stiamo giocando il futuro, stiamo scommettendo il presente, l’immediato.

Piego anche l’ultima scheda, e guardo quel mucchietto all’angolo della piccola mensola. È fatta.
Per la prima volta, da quando voto, sento le lacrime che mi salgono agli occhi.

Altre volte ho votato il male minore, ma questa volta fa più male delle altre.
Avevo giurato che non l’avrei fatto, ma sono dovuto scendere a patti con la realtà.
Ancora una volta, la persona che più di tutte ha portato l’Italia nel baratro, mi ha levato la libertà di scegliere con serenità.
Avrei volentieri scelto una delle novità, quella che, nonostante tutto, mi convinceva di più, ma per sperare che questo Paese regga ancora un po’, è necessario un governo con il più ampio consenso possibile.
Votare un partito piccolo, solo perché è quello in cui mi ritrovo di più, è un lusso che non posso ancora permettermi.

Sento, dall’altra parte della cabina, i miei bambini che chiacchierano con gli scrutatori.
Non posso negarlo, è a loro che penso più di ogni altro, in questi giorni. Forse è per loro che mi sono dilaniato così tanto nella scelta.
Perché loro, un giorno, mi domanderanno: “Papà, ma quando Berlusconi tentò di comprare il voto degli Italiani promettendogli soldi che tra l’altro non aveva, tu che hai fatto per fermarlo?”

Perché, ancora oggi, dopo vent’anni, mi trovo a dover cercare di fermare qualcuno, piuttosto che a mandare avanti qualcuno in cui credo.

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Alexander Platz

C’era il contrabbassista. Era alto, quasi come lo strumento che suonava, magro, il volto un ovale smagrito incorniciato da capelli neri tinti qua a là di grigio, lunghi a coprirgli le orecchie, con una specie di frangia da un lato che copriva mezza fronte. Gli occhi chiusi, incavati, scuriti dalle sopracciglia folte nere e dalle occhiaie, testimonianze di molte notti in giro per club. Accarezzava le corde con le dita lunghe, lunghe come non si erano mai viste. Ogni tanto si piegava in avanti, ad abbracciare lo strumento, per avvicinare il suo orecchio alla cassa armonica dell’enorme liuto, o per allontanarne il suo cuore, per capire quale dei due, tra lo strumento e l’organo, fosse a battere i colpi più forti. Scuoteva la testa lentamente, talvolta, mentre le dita correvano lungo le corde, la bocca piegata in una smorfia che esprimeva la vita che fuggiva e catturava in ogni nota.

C’era il batterista. Seduto in un angolo, con piatti, grancassa e rullante stipati in uno spazio angusto, ché il piccolo palco doveva bastare per tutti. Il cappello grigio, a metà strada tra una scoppola e un basco, copriva un capo che si intuiva privo di capelli. Gli occhiali spessi con le lenti rotonde e una montatura di plastica trasparente, e aste nere che poggiavano su orecchie leggermente a sventola, un volto rotondo con una bocca piccola e sottile, serrata, ogni tanto si increspava per un accenno di sorriso. Indossava una camicia a righe larghe un centimetro, rosse e blu, abbottonata fino al colletto, che contribuiva a dargli un’aria un po’ trasognata. Le braccia si muovevano nell’aria, ora lentamente, ora più velocemente, a toccare lievemente o scuotere tom-tom e charleston. Ogni tanto le bacchette scomparivano e al loro posto apparivano quelle spazzole con cui accarezzava i piatti, contribuendo a creare una melodia che sapeva di cristalli che scendono dal cielo danzando.

C’era il pianista. Camicia bianca sbottonata sotto una giacca nera sportiva. La chioma folta, di un grigio venato di bianco, e la barba incolta dello stesso colore. Era diverso dagli altri. Suonava ad occhi aperti, sul viso aveva stampato un sorriso sincero di chi sta bene, la bocca ogni tanto si spalancava come di stupore, una continua meraviglia di fronte alla bellezza della melodia. Gli occhi si spostavano spesso a cercare lo sguardo dei compagni di quella sera, ma quasi sempre i loro sguardi erano immersi nell’oscurità del proprio io, ad ascoltare profondamente le note che creavano. Ma lui non si scoraggiava, e fermava lo sguardo ora sul batterista, ora sul suonatore di contrabbasso, gli occhi spalancati in un sorriso, contento di vedere e sentire ciò che provavano i suoi compagni.

C’era l’armonicista. Alto, corpulento, argentei capelli radi che, tinti dal blu della scritta al neon appesa sul muro alle sue spalle che riportava il nome del club, risultavano alla fine di uno strano colore viola. Era il frontman, introduceva i brani e raccontava aneddoti, e non suonava sempre durante i pezzi. Ma quando arrivava il suo momento, avvicinava l’armonica cromata alla bocca e ci soffiava dentro. Soffiava, prendeva fiato e soffiava ancora. Donava l’anima all’armonica, e l’armonica ricambiava donando suoni vibranti di vita, come una battito d’ali di un uccello rapace che si alza in volo. Quel genere di suoni che entrano direttamente nel cuore e nello stomaco, che solo gli strumenti a fiato sanno dare.

C’era la ragazza. Seduta a un tavolino rotondo, avvolta da un tubino nero anni sessanta che le lasciava le braccia scoperte. Aveva le labbra colorate di un rosso intenso. Le mani, poggiate in grembo, non si avvicinavano mai al calice di vino rosso che le era innanzi. Il suo sguardo perso in qualche punto vuoto sul palco, gli occhi lucidi. Accanto a lei una sedia, vuota, di traverso e scostata dal tavolo. Un posacenere, con un sigaretta ancora fumante, stropicciata in fretta da qualcuno prima di alzarsi e andare via.

C’era il ragazzo. Seduto a un altro tavolino del club, studiava i musicisti, godeva delle note in compagnia di una birra. Di fronte a lui una tavoletta luminosa su cui le dita veloci danzavano silenziose a comporre parole di un racconto, il milionesimo incompiuto.

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Facciamo la nostra parte

Quando hanno approvato la manovra finanziaria, piena di tasse nuove e tagli ridicoli, la prima sensazione che ho provato è stata rabbia. Rabbia soprattutto per l’IVA al 21%, che voleva dire non solo +1% sui prezzi, ma un incremento del 3-7% per effetto dei nuovi arrotondamenti. Un vero e proprio salasso per i consumatori, per le famiglie che già non riescono ad arrivare a fine mese. Un salasso per tutti noi.

Ma poi alla rabbia è subentrata la preoccupazione: aumentare l’IVA non è la solita mossa di alzare una tassetta seminascosta di cui non ci si accorge immediatamente, ma solo a fine anno. Aumentare l’IVA vuol dire andare in maniera immediata e diretta a colpire tutti: è una delle mosse più impopolari che un governo possa fare. E’ chiaro a tutti, persino a quegli incompetenti che ci governano in questo momento.

E’ evidente quindi che se l’hanno fatto le cose sono davvero complicate. E’ chiaro anche all’opposizione che ovviamente ha cavalcato l’evento con “più tasse per tutti” ma che nella medesima situazione avrebbe fatto lo stesso (qualcuno potrebbe obiettare che con l’opposizione non saremmo arrivati a questo punto, ma io non vedo Merkel dalle nostre parti).

Ma il punto è che ho cominciato a preoccuparmi. E ho cominciato a voler credere persino a quello che mi dicevano. Del tipo che grazie a questa manovra avremmo raggiunto il pareggio nel 2013. Ecco, quando ho sentito questa affermazione, ho pensato a una sorta di senso di responsabilità. Va bene, siamo nei casini, adesso vediamo come uscirne. Facciamo ognuno la sua parte, e usciamone.

La stessa cosa che penserebbe un padre che scopre che il figlio ha preso la macchina senza permesso solo perché ha tamponato un’altra auto: si incazzerebbe, sarebbe deluso, ma poi prenderebbe in mano la situazione e farebbe la sua parte per risolvere il problema. Pagherebbe l’altro automobilista, riparerebbe la sua auto ma poi farebbe modo che il figlio capisca veramente la cazzata che ha fatto.

E allora va bene, facciamo la nostra parte. Paghiamo l’IVA al 21, e il 60% di IPT in più. Facciamo ancora sacrifici. Lo so, non è giusto. Non è colpa nostra e forse non ce lo meritiamo. Ma ormai è così, dobbiamo fare la nostra parte per evitare danni peggiori. E sperare che il pareggio del bilancio nel 2013 non sia un’altra fanfaronata.

Ma questo non vuol dire subire passivamente. Fare la propria parte vuol dire prendere responsabilmente il timone della situazione, risolverla, e anche fare in modo che non accada più in futuro. Per cui facciamo i nostri sacrifici, ma facciamo anche capire ai fanfaroni che occupano tutto l’emiciclo parlamentare che non ne possiamo più di pagare i loro danni, di coprire i loro debiti.

La prossima volta che andate a votare, ricordate dove ci hanno portati quelli che adesso urlano da una parte e dall’altra.
La prossima volta che vi promettono qualcosa, pensate a quanto vi faranno pagare ciò che vi stanno promettendo.

Facciamo la nostra parte: paghiamo e facciamo capire realmente che non ne possiamo più.

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Mission control: un passo in avanti?

Uno dei motivi per cui sono rimasto ammaliato dal Mac, circa 4 anni fa, è stato la combinazione Exposé + Spaces: la fluidità e la velocità con cui si passava da un’applicazione all’altra era da lasciare a bocca aperta, e la possibilità di organizzare più desktop per avere meno confusione era fantastica, specialmente per uno che usava decine di applicazioni e finestre aperte contemporaneamente come me.

Così, quando su Lion è stato annunciato il Mission Control, mi sono preoccupato, come quando una pubblicità annuncia trionfante “Macine del Mulino Bianco: da oggi una nuova ricetta, ancora più gustosa”… nooo! A me piacciono così come sono, che cosa dovete cambiare?

Ammetto che spesso ho anche una certa resistenza ad apprezzare delle novità, se queste coinvolgono parti importanti del mio lavoro, e quindi, subito dopo aver installato Lion, ho iniziato a guardare il Mission Control con un po’ di sospetto, ma anche incuriosito: del resto già su Snow Leopard avevano messo le mani su Exposé ed avevano migliorato, quindi…

“Dall’unione di Spaces e Exposé nasce Mission Control”: questo è stato un po’ il cuore del lancio marketing di questa funzionalità, ma già quando lo dissero la prima volta, io storsi la bocca… che razza di novità è questa? Spaces ed Exposé sono già unificati!

In Snow Leopard, infatti, dopo aver attivato Spaces in un modo qualsiasi (clic sul tasto 14 del mouse, angolo dello schermo, tasto sulla tastiera etc), quando ci si trova nella schermata che mostra la griglia degli spazi, è sufficiente premere il tasto che attiva Exposé per vedere le finestre delle applicazioni aperte che si “rimpiccioliscono” su tutti gli spazi: in questo modo è possibile avere un colpo d’occhio delle finestre che ci sono su ogni singolo spazio.

Colpo d'occhio su tutte le finestre

La combinazione di Space ed Exposé su Snow Leopard permette di avere un colpo d'occhio su tutte le finestre aperte

 

Il colpo d’occhio su tutte le finestre di tutti gli spazi non è invece possibile con Mission Control, che permette di vedere solo quelle del desktop attivo, ovvero in pratica ciò che già faceva Exposé, ma, cosa ancora peggiore, non permette di riordinare velocemente le finestre da uno spazio all’altro: si possono spostare finestre dal desktop attivo a uno degli altri, ma le finestre degli altri spazi non sono raggiungibili se non facendoli diventare attivo il desktop che le contiene (opt + clic sul desktop).

 

Mission Control

Mission Control permette di vedere insieme i desktop e le finestre del dekstop attuale, ma non le finestre sugli altri desktop.

In Exposé, inoltre, si può passare facilmente dalla visualizzazione “tutte le finestre aperte” a quella “finestre della singola applicazione” senza dover chiudere la visualizzazione precedente: ora non si può più.

Inoltre, una volta attivata l’anteprima dell’applicazione (ovvero, dopo aver attivato Exposé, con il mouse su una finestra, premi la barra spaziatrice) spostando il mouse su un’altra finestra, quella abbandonata veniva rimpicciolita e quella su cui il mouse si passava diventava più grande, rendendo più veloce cercare una finestra in mezzo a tante altre: neanche questo è possibile fare con Mission Control, bisogna prima premere di nuovo la barra spaziatrice sull’applicazione in anteprima, solo dopo si può vederne un’altra, con un spreco di pressioni di tasti e di tempo.

Una parola anche sulla griglia degli spazi. Io utilizzo quattro spazi, e mi muovo tra di essi in molteplici modi, a seconda di quello più comodo al momento, angoli attivi, CTRL+Numero dello spazio o CTRL+frecce. In Snow Leopard avevo la possibilità, quindi, di passare dallo spazio 1 al 3 premendo CTRL+freccia giù, in quanto gli spazi erano organizzati come una griglia, ma in Mission Control gli spazi sono uno di seguito all’altro, e per andare dall’1 al 3 con le frecce bisogna necessariamente passare dal 2.

Prima, per passare dall’1 al 4 potevo fare CTRL + DESTRA + GIU’ (o addirittura semplicemente CTRL + SINISTRA), adesso devo fare CTRL + DESTRA + DESTRA + DESTRA: uno spreco.

Il passaggio da un desktop all’altro è piuttosto lento, e fa venire la nausea, sensazione mai provata con Spaces, forse è dovuto a qualche procedura di animazione non proprio fluida; prima si muovevano solo le finestre, mentre dock, barra dei menu e icone del desktop restavano fisse, mentre adesso la barra dei menu si muove e chissà perché le icone del desktop, che sono le stesse su tutti i desktop, scompaiono per poi ricomparire in dissolvenza, facendo perdere altro tempo e non catturando quindi l’attenzione degli occhi su qualcosa di inutile.

Ma quindi è tutto brutto in questo Mission Control? No, qualcosa di buono c’è. Quando si mostrano le finestre di una singola applicazione, ad esempio, nella parte inferiore dello schermo vengono mostrate le anteprime degli ultimi documenti aperti con l’applicazione in questione, che sono quindi velocemente apribili con un solo clic.

Inoltre la visualizzazione di tutte le finestre aperte in uno spazio sembra ancora più ordinata di quella che c’era su Snow Leopard (che già era stata migliorata rispetto a Leopard).

E’ interessante che le applicazioni attivate a tutto schermo (gran bella cosa di Lion, anche se non proprio nuovissima come vorrebbero far passare), all’interno di Mission Control, vengano visualizzate come se fossero nuovi spazi (soluzione semplice a un problema complicato) e certamente i gesti multitouch del trackpad per spostarsi da uno spazio all’altro sono molto comodi, ma in fondo c’erano già prima.

Insomma, dopo una prima mezz’ora di uso, non posso fare a meno di pensare che Mission Control sia un passo indietro rispetto a ciò che prima erano Exposé e Spaces. E non confido tanto in aggiornamenti di Apple, almeno non a breve termine, quanto nella mia capacità di adattamento.

Per il momento, però, mi mancano Spaces ed Exposé.

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Caporetto

Il giudice sorseggiò un bicchiere d’acqua del rubinetto, pubblica, rinfrescata da un sistema di refrigerazione alimentato con pannelli solari. Lo posò, prese in mano la penna, e lentamente appose la sua firma sul mandato a comparire per il primo ministro.

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Mi chiamo Francesco Face e non posso iscrivermi a Facebook

Prima non l’ho fatto per disinteresse.

Poi non l’ho fatto per timore della privacy.

Poi non l’ho fatto per anticonformismo (leggi: nausea a pensare che Facebook sia diventata una molla per informatizzare il popolo italico, così come il Grande Fratello trasmesso su Premium fu la molla per convincere lo stesso popolo a dotarsi di decoder digitale terrestre).

Va bene, mettiamoci pure che ero invidioso marcio di Zuckerberg.

Ma alla fine ho dovuto cedere: per lavoro, per semplice aggiornamento, per conoscenza, non potevo non avere un account su Facebook. O almeno così mi hanno detto diverse persone.

E quindi mi sono iscritto. O meglio, ci ho provato. Sono andato a compilare il modulo di iscrizione che mi sono trovato davanti e questo è stato il laconico messaggio ricevuto dopo aver inviato i miei dati per registrarmi:

C’era da immaginarselo. Il mio cognome, “Face”, non gli piace. Il mio cognome dalle latinissime origini (fax facis, ovvero luce, fiaccola) e che alcuni studi araldici fatti da miei zii fanno risalire a qualche casata nobiliare spagnola (origine di cui non vado molto fiero, in verità, e non per la Spagna), confuso con un banale “volto” anglosassone. D’accordo, non è la prima volta, ma mai mi aveva precluso qualche servizio.

Recentemente il ragazzo più furbo d’America ha persino registrato come marchio la parola “Face”, in modo da impedire ad altri di usarla come prefisso o postfisso in qualsivoglia modo, un po’ quello che ha cercato di fare anche Apple con la “i” minuscola, senza riuscirci però (impossibile registrare una lettera dell’alfabeto).

Ma Face è una parola intera, ancorché generica, e visti i precedenti che sanciscono che un marchio vale più di un nome di persona, mi sono pure preoccupato. Vuoi vedere che mi levano anche il dominio francescoface.it? Poi vallo a spiegare a Zuckerberg che face in quel caso non è un postfisso. Ma questa è un’altra storia, o quasi. Il succo della questione è che il mio cognome viene filtrato dai server di Facebook.

Dopo un risolino amaro ho cliccato sulla scritta “Se credi che sia un errore, contattaci”, e sono stato catapulato nella sezione dell’assistenza di Facebook dedicata ai problemi di registrazione; scorro un po’ e trovo “Il mio nome è stato rifiutato al momento dell’iscrizione.” Bene, è il mio caso. Leggo.

Dopo essermi assicurato di aver seguito alla lettera tutte le indicazioni mostrate nella pagina, di non aver usato simboli strani, alfabeti klingon e così via, risulta che in effetti ho ancora dei problemi, e quindi clicco lì, dove dice il messaggio d’aiuto, che mi porta in una pagina dal titolo promettente. “Nome non accettato”.

Ottimo, siamo vicini alla soluzione. Adesso inserirò i miei dati e qualcuno mi contatterà, magari mi chiederanno un documento d’identità, penso.
Compilo i campi: sorrido pensando a ciò che direbbe Sheldon Cooper riguardo errata decisione di Facebook di mettere le parole “Uomo” e “Donna” alla voce “sesso”, mi domando cosa vorranno dire con “Indirizzo e-mail di accesso” (Io non ho ancora un accesso! Ci sto provando!) e sorvolo sulle “reti di cui fai parte” perché non ho la più pallida idea di cosa voglia dire, certifico di aver letto di condizioni d’uso e di accettarle, e clicco Invia.

Vengo ringraziato con questo messaggio:

“Potrebbe essere necessaria una tue risposta prima che sia possibile assisterti ulteriormente”. A parte il refuso che non ti aspetti da una società da milioni di dollari, quale sarà il senso? Boh, aspettiamo.

Butto un’occhiata al dock del mac e vedo che Mail mi segnala un nuovo messaggio. Perbacco, sono già loro? Sì, ma non proprio quello che aspettavo. Ecco l’e-mail nella mia casella, che probabilmente stazionava lì già da qualche minuto:

 

Confesso di cominciare a sentirmi un po’ preso in giro, ma sorrido al fatto che anche in una società da miliardi di milioni di dollari fanno cappellate di tutto rispetto. Insomma, invitarmi a completare la registrazione dopo aver rifiutato il mio nome è veramente degno di nota. Arriva un altro messaggio:

 

 

Ecco di cosa parlavano. Vogliono essere sicuri che io sia io. Non vorrei tediare il mondo con le considerazioni sull’inutilità di questa verifica in questo specifico caso: insomma, sono un utente che ha compilato il modulo “Nome non accettato”, non ho nessun account a cui fare riferimento, sono titolare solo del mio nome! Perbacco, e sì che siete una società da migliaia di miliardi di milioni di dollari! Vabbe’, rispondo all’e-mail dicendo “Sono proprio io” e resto in attesa. Poi mi accorgo del link al loro sistema di assistenza. Ah, bene, clicchiamo, vediamo come funziona, magari posso mettere qualche informazione aggiuntiva…

Clicco, e resto in attesa. 10 secondi. Pagina bianca.

30 secondi. Pagina bianca.

60 secondi. Pagina bianca.

120 secondi. Il responso di Opera:

Minchia. Hanno il server giù. Non te l’aspetti, da una società da triliardi di miliardi di dollari. E’ come se andasse giù la webfarm su cui sono poggiati i siti di mezza Italia! E’ come se si bloccassero i sistemi informatici delle Poste paralizzando per tre giorni le operazioni postali di un intero paese! Non è possibile!

E invece sì. Hanno il server giù. Ho già perso troppo tempo, torno al lavoro.

Dopo qualche giorno, il mio sistema GTD mi ricorda che ero in attesa di un responso da parte di una certa Facebook, e quindi torno sull’e-mail, riclicco sul link del ticket e… niente. Hanno il server giù. Non è possibile, dev’esserci qualcosa che non va sul mio router. Mi collego al computer di casa, e provo a raggiungere il server da lì: niente. Mi collego a un paio di server che ho in giro, e provo da lì: ancora niente.

IL SERVER DI TICKETING DI FACEBOOK NON FUNZIONA.

Ma la storia non finisce qui. Perché dopo un paio di giorni dalla mia risposta alla loro e-mail, quella in cui gli garantivo che ero proprio io ad essere me, mi arriva un messaggio automatico del mio server di posta elettronica che mi avvisa che non è riuscito a consegnare il mio messaggio e che ci riproverà ancora. Incredibile.
Altro avviso il giorno dopo, sempre più incredibile. Il server di destinazione non ha accettato la connessione, e quindi ci riproverà.
Ma il giorno dopo arriva l’ultimo messaggio, che mi informa che il mio messaggio non è stato consegnato perché il server tps.facebook.com va sempre in timeout di connessione. Da matti.

Ho riprovato a fare tutta la trafila, più volte, a distanza di settimane o di mesi. Senza successo, e senza variazioni sul tema, a parte una volta. In un caso infatti, qualche giorno dopo non aver ricevuto alcuna risposta, mi è arrivata un’e-mail di “Facebook Research” che mi invitava  a completare un sondaggio per esprimere la mia opinione riguardo l’assistenza ricevuta.
Cose così non te le aspetti da una società di triliardi di trilioni di dollari.

Ad ogni modo, adesso sapete perché non sono su Facebook. Perché non mi vogliono. Sono vittima di discriminazione nominale.

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