Mi chiamo Francesco Face e non posso iscrivermi a Facebook

Prima non l’ho fatto per disinteresse.

Poi non l’ho fatto per timore della privacy.

Poi non l’ho fatto per anticonformismo (leggi: nausea a pensare che Facebook sia diventata una molla per informatizzare il popolo italico, così come il Grande Fratello trasmesso su Premium fu la molla per convincere lo stesso popolo a dotarsi di decoder digitale terrestre).

Va bene, mettiamoci pure che ero invidioso marcio di Zuckerberg.

Ma alla fine ho dovuto cedere: per lavoro, per semplice aggiornamento, per conoscenza, non potevo non avere un account su Facebook. O almeno così mi hanno detto diverse persone.

E quindi mi sono iscritto. O meglio, ci ho provato. Sono andato a compilare il modulo di iscrizione che mi sono trovato davanti e questo è stato il laconico messaggio ricevuto dopo aver inviato i miei dati per registrarmi:

C’era da immaginarselo. Il mio cognome, “Face”, non gli piace. Il mio cognome dalle latinissime origini (fax facis, ovvero luce, fiaccola) e che alcuni studi araldici fatti da miei zii fanno risalire a qualche casata nobiliare spagnola (origine di cui non vado molto fiero, in verità, e non per la Spagna), confuso con un banale “volto” anglosassone. D’accordo, non è la prima volta, ma mai mi aveva precluso qualche servizio.

Recentemente il ragazzo più furbo d’America ha persino registrato come marchio la parola “Face”, in modo da impedire ad altri di usarla come prefisso o postfisso in qualsivoglia modo, un po’ quello che ha cercato di fare anche Apple con la “i” minuscola, senza riuscirci però (impossibile registrare una lettera dell’alfabeto).

Ma Face è una parola intera, ancorché generica, e visti i precedenti che sanciscono che un marchio vale più di un nome di persona, mi sono pure preoccupato. Vuoi vedere che mi levano anche il dominio francescoface.it? Poi vallo a spiegare a Zuckerberg che face in quel caso non è un postfisso. Ma questa è un’altra storia, o quasi. Il succo della questione è che il mio cognome viene filtrato dai server di Facebook.

Dopo un risolino amaro ho cliccato sulla scritta “Se credi che sia un errore, contattaci”, e sono stato catapulato nella sezione dell’assistenza di Facebook dedicata ai problemi di registrazione; scorro un po’ e trovo “Il mio nome è stato rifiutato al momento dell’iscrizione.” Bene, è il mio caso. Leggo.

Dopo essermi assicurato di aver seguito alla lettera tutte le indicazioni mostrate nella pagina, di non aver usato simboli strani, alfabeti klingon e così via, risulta che in effetti ho ancora dei problemi, e quindi clicco lì, dove dice il messaggio d’aiuto, che mi porta in una pagina dal titolo promettente. “Nome non accettato”.

Ottimo, siamo vicini alla soluzione. Adesso inserirò i miei dati e qualcuno mi contatterà, magari mi chiederanno un documento d’identità, penso.
Compilo i campi: sorrido pensando a ciò che direbbe Sheldon Cooper riguardo errata decisione di Facebook di mettere le parole “Uomo” e “Donna” alla voce “sesso”, mi domando cosa vorranno dire con “Indirizzo e-mail di accesso” (Io non ho ancora un accesso! Ci sto provando!) e sorvolo sulle “reti di cui fai parte” perché non ho la più pallida idea di cosa voglia dire, certifico di aver letto di condizioni d’uso e di accettarle, e clicco Invia.

Vengo ringraziato con questo messaggio:

“Potrebbe essere necessaria una tue risposta prima che sia possibile assisterti ulteriormente”. A parte il refuso che non ti aspetti da una società da milioni di dollari, quale sarà il senso? Boh, aspettiamo.

Butto un’occhiata al dock del mac e vedo che Mail mi segnala un nuovo messaggio. Perbacco, sono già loro? Sì, ma non proprio quello che aspettavo. Ecco l’e-mail nella mia casella, che probabilmente stazionava lì già da qualche minuto:

 

Confesso di cominciare a sentirmi un po’ preso in giro, ma sorrido al fatto che anche in una società da miliardi di milioni di dollari fanno cappellate di tutto rispetto. Insomma, invitarmi a completare la registrazione dopo aver rifiutato il mio nome è veramente degno di nota. Arriva un altro messaggio:

 

 

Ecco di cosa parlavano. Vogliono essere sicuri che io sia io. Non vorrei tediare il mondo con le considerazioni sull’inutilità di questa verifica in questo specifico caso: insomma, sono un utente che ha compilato il modulo “Nome non accettato”, non ho nessun account a cui fare riferimento, sono titolare solo del mio nome! Perbacco, e sì che siete una società da migliaia di miliardi di milioni di dollari! Vabbe’, rispondo all’e-mail dicendo “Sono proprio io” e resto in attesa. Poi mi accorgo del link al loro sistema di assistenza. Ah, bene, clicchiamo, vediamo come funziona, magari posso mettere qualche informazione aggiuntiva…

Clicco, e resto in attesa. 10 secondi. Pagina bianca.

30 secondi. Pagina bianca.

60 secondi. Pagina bianca.

120 secondi. Il responso di Opera:

Minchia. Hanno il server giù. Non te l’aspetti, da una società da triliardi di miliardi di dollari. E’ come se andasse giù la webfarm su cui sono poggiati i siti di mezza Italia! E’ come se si bloccassero i sistemi informatici delle Poste paralizzando per tre giorni le operazioni postali di un intero paese! Non è possibile!

E invece sì. Hanno il server giù. Ho già perso troppo tempo, torno al lavoro.

Dopo qualche giorno, il mio sistema GTD mi ricorda che ero in attesa di un responso da parte di una certa Facebook, e quindi torno sull’e-mail, riclicco sul link del ticket e… niente. Hanno il server giù. Non è possibile, dev’esserci qualcosa che non va sul mio router. Mi collego al computer di casa, e provo a raggiungere il server da lì: niente. Mi collego a un paio di server che ho in giro, e provo da lì: ancora niente.

IL SERVER DI TICKETING DI FACEBOOK NON FUNZIONA.

Ma la storia non finisce qui. Perché dopo un paio di giorni dalla mia risposta alla loro e-mail, quella in cui gli garantivo che ero proprio io ad essere me, mi arriva un messaggio automatico del mio server di posta elettronica che mi avvisa che non è riuscito a consegnare il mio messaggio e che ci riproverà ancora. Incredibile.
Altro avviso il giorno dopo, sempre più incredibile. Il server di destinazione non ha accettato la connessione, e quindi ci riproverà.
Ma il giorno dopo arriva l’ultimo messaggio, che mi informa che il mio messaggio non è stato consegnato perché il server tps.facebook.com va sempre in timeout di connessione. Da matti.

Ho riprovato a fare tutta la trafila, più volte, a distanza di settimane o di mesi. Senza successo, e senza variazioni sul tema, a parte una volta. In un caso infatti, qualche giorno dopo non aver ricevuto alcuna risposta, mi è arrivata un’e-mail di “Facebook Research” che mi invitava  a completare un sondaggio per esprimere la mia opinione riguardo l’assistenza ricevuta.
Cose così non te le aspetti da una società di triliardi di trilioni di dollari.

Ad ogni modo, adesso sapete perché non sono su Facebook. Perché non mi vogliono. Sono vittima di discriminazione nominale.

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