Alexander Platz

C’era il contrabbassista. Era alto, quasi come lo strumento che suonava, magro, il volto un ovale smagrito incorniciato da capelli neri tinti qua a là di grigio, lunghi a coprirgli le orecchie, con una specie di frangia da un lato che copriva mezza fronte. Gli occhi chiusi, incavati, scuriti dalle sopracciglia folte nere e dalle occhiaie, testimonianze di molte notti in giro per club. Accarezzava le corde con le dita lunghe, lunghe come non si erano mai viste. Ogni tanto si piegava in avanti, ad abbracciare lo strumento, per avvicinare il suo orecchio alla cassa armonica dell’enorme liuto, o per allontanarne il suo cuore, per capire quale dei due, tra lo strumento e l’organo, fosse a battere i colpi più forti. Scuoteva la testa lentamente, talvolta, mentre le dita correvano lungo le corde, la bocca piegata in una smorfia che esprimeva la vita che fuggiva e catturava in ogni nota.

C’era il batterista. Seduto in un angolo, con piatti, grancassa e rullante stipati in uno spazio angusto, ché il piccolo palco doveva bastare per tutti. Il cappello grigio, a metà strada tra una scoppola e un basco, copriva un capo che si intuiva privo di capelli. Gli occhiali spessi con le lenti rotonde e una montatura di plastica trasparente, e aste nere che poggiavano su orecchie leggermente a sventola, un volto rotondo con una bocca piccola e sottile, serrata, ogni tanto si increspava per un accenno di sorriso. Indossava una camicia a righe larghe un centimetro, rosse e blu, abbottonata fino al colletto, che contribuiva a dargli un’aria un po’ trasognata. Le braccia si muovevano nell’aria, ora lentamente, ora più velocemente, a toccare lievemente o scuotere tom-tom e charleston. Ogni tanto le bacchette scomparivano e al loro posto apparivano quelle spazzole con cui accarezzava i piatti, contribuendo a creare una melodia che sapeva di cristalli che scendono dal cielo danzando.

C’era il pianista. Camicia bianca sbottonata sotto una giacca nera sportiva. La chioma folta, di un grigio venato di bianco, e la barba incolta dello stesso colore. Era diverso dagli altri. Suonava ad occhi aperti, sul viso aveva stampato un sorriso sincero di chi sta bene, la bocca ogni tanto si spalancava come di stupore, una continua meraviglia di fronte alla bellezza della melodia. Gli occhi si spostavano spesso a cercare lo sguardo dei compagni di quella sera, ma quasi sempre i loro sguardi erano immersi nell’oscurità del proprio io, ad ascoltare profondamente le note che creavano. Ma lui non si scoraggiava, e fermava lo sguardo ora sul batterista, ora sul suonatore di contrabbasso, gli occhi spalancati in un sorriso, contento di vedere e sentire ciò che provavano i suoi compagni.

C’era l’armonicista. Alto, corpulento, argentei capelli radi che, tinti dal blu della scritta al neon appesa sul muro alle sue spalle che riportava il nome del club, risultavano alla fine di uno strano colore viola. Era il frontman, introduceva i brani e raccontava aneddoti, e non suonava sempre durante i pezzi. Ma quando arrivava il suo momento, avvicinava l’armonica cromata alla bocca e ci soffiava dentro. Soffiava, prendeva fiato e soffiava ancora. Donava l’anima all’armonica, e l’armonica ricambiava donando suoni vibranti di vita, come una battito d’ali di un uccello rapace che si alza in volo. Quel genere di suoni che entrano direttamente nel cuore e nello stomaco, che solo gli strumenti a fiato sanno dare.

C’era la ragazza. Seduta a un tavolino rotondo, avvolta da un tubino nero anni sessanta che le lasciava le braccia scoperte. Aveva le labbra colorate di un rosso intenso. Le mani, poggiate in grembo, non si avvicinavano mai al calice di vino rosso che le era innanzi. Il suo sguardo perso in qualche punto vuoto sul palco, gli occhi lucidi. Accanto a lei una sedia, vuota, di traverso e scostata dal tavolo. Un posacenere, con un sigaretta ancora fumante, stropicciata in fretta da qualcuno prima di alzarsi e andare via.

C’era il ragazzo. Seduto a un altro tavolino del club, studiava i musicisti, godeva delle note in compagnia di una birra. Di fronte a lui una tavoletta luminosa su cui le dita veloci danzavano silenziose a comporre parole di un racconto, il milionesimo incompiuto.

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